SOCIETÀ

Assemblee e Marcantonii. Una testimonianza sul ‘68

All’inizio, quei giorni non sembrarono diversi dagli altri. Solo, si percepiva come un brusio sotterraneo, un’irrequietezza comune che andava crescendo un po’ alla volta, rendendoci inquieti e curiosi di capire l’estensione del nostro potere. Cominciammo a riflettere davvero sulle molte cose che all’università ci rendevano insofferenti, a pensare che certe storture, certe cattive abitudini dei professori, certe forme di autoritarismo che avevamo fino ad allora sopportato con proteste timide e poco convinte, potevano essere cambiate, se avessimo saputo alzare la testa e protestare.

Non si trattava tuttavia affatto – io credo, e ricordo bene – di un sentire generalmente condiviso, di un disagio derivante da cause dappertutto analoghe. La consueta spiegazione di una comune fortissima insofferenza, che inevitabilmente portava a battaglie comuni, non mi ha mai del tutto convinto. Mi è sempre sembrata come una coperta troppo corta gettata a posteriori sui movimenti di quegli anni, comoda e utile per chi volle – appunto a posteriori – avvalorare e diffondere l’idea di una compatta forza giovanile, “una d’arme, di lingua, d’altar” (voluta parafrasi un po’ maligna di una celebre ode patriottica ottocentesca…), che si scagliava come un maglio unitario contro i poteri costituiti e l’autorità di qualsiasi genere.

Certo, i movimenti del ’68 esplosero un po’ dovunque, come per un contagio di ribellione giovanile che si estese come un fuoco estivo in campagne assolate Antonia Arslan

Certo, i movimenti del ’68 esplosero un po’ dovunque, come per un contagio di ribellione giovanile che si estese come un fuoco estivo in campagne assolate: ma la rivolta di Praga non fu quella del maggio francese, Berkeley e Berlino aspiravano a esiti ben differenti. Per Padova, si trattò piuttosto di un felice (o infelice, se vogliamo) sovrapporsi di circostanze e inquietudini nuove su una realtà locale che avviluppava la città sotto una densa, soffocante crosta che la ossificava in una routine che sembrava eterna: sindaco, rettore, vescovo erano in carica da un ventennio, sembravano insostituibili.

Un’università cresciuta in fretta, in modo convulso e caotico, e diventata troppo grande per una città troppo piccola, che la sfruttava ma la sentiva estranea, nella sua minuta realtà medievale; facoltà dove il numero degli studenti aumentava vertiginosamente senza offrire esiti concreti, ma solo tante speranze di confuse palingenesi, come Magistero, non a caso successivamente confluita nella facoltà di Lettere; un corpo docenti esiguo e sottopagato, costretto a ricorrere in massa ai famosi “assistenti volontari”, alla cui buona volontà non corrispondeva neppure una lira all’anno…

Ce n’era abbastanza per tutti: e tutti fummo entusiasti, nei primi mesi, di cominciare a contare qualcosa. All’epoca, io appunto mi fregiavo del titolo di assistente volontaria. Lavoravo all’università due mezze giornate alla settimana, facevo lezioni ed esami, tenevo aperta la biblioteca dell’istituto, e ricevevo dall’amministrazione un elegante foglio di carta ogni anno, su cui era descritto il mio status. Come me, ce n’erano quasi mille, e senza di noi l’attività universitaria si sarebbe certamente bloccata.

Occupare era molto divertente, si stava tutti insieme, si dormiva insieme, ci si vestiva in modo appropriato, e il grande atrio del Liviano ci ospitava tutti Antonia Arslan

Tutti volevamo una riforma, ma quale? Istanze reali di miglioramento e pulsioni eversive si andavano contrapponendo, e vincevano le seconde. Ben presto le discussioni assembleari seguirono il destino di ogni assemblea senza regole precise: si affermavano i migliori parlatori, i più forti, i più preparati ideologicamente. E riducevano al silenzio tutti gli altri. Le nostre concrete ma modeste richieste furono classificate come “riformismi che facevano oggettivamente il gioco dei padroni”, derise e respinte.

Occupare era molto divertente, si stava tutti insieme, si dormiva insieme, ci si vestiva in modo appropriato, e il grande atrio del Liviano ci ospitava tutti. Ma mentre nelle facoltà scientifiche tutta questa “immaginazione al potere” durò abbastanza poco, a Lettere ormai erano emersi alcuni piccoli maestri inebriati di retorica che tenevano in pugno le assemblee e prolungavano inutilmente le occupazioni oltre ogni misura di tempo. La maggioranza degli studenti taceva mugugnando.

E io mi stufai. Oltre a fare l’assistente volontaria, insegnavo in un ottimo istituto superiore di Padova. In quinta, avevo una classe vivace ed estremamente simpatica, con un paio di giovani rugbisti alti due metri, come si dice. E con loro organizzai una beffa in puro stile goliardico. Era in corso una delle tante occupazioni, e ogni pomeriggio l’assemblea degli studenti si riconvocava. Con una sciarpa al collo e l’aria strafottente, il più spavaldo e loquace dei due, che si chiamava Dimitri, tallonato da vicino dall’altro che gli faceva da guardia del corpo, entrò nell’aula, si presentò come “il delegato di Bologna” e disse che là avevano deciso di interrompere le occupazioni, perché era una forma di lotta ormai invecchiata. “E quello che decide Bologna, l’alma mater, vale anche per Padova”, concluse tagliente.

Gli occupanti si guardarono, e uscirono mogi, senza replicare. Ma quelli erano ancora i primi mesi, e l’aria della città non si era ancora fatta irrespirabile…

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