“The ghosts in our machine” – i fantasmi nella nostra macchina – è un documentario canadese del 2013 dedicato ad evidenziare il legame tra gli animali che utilizziamo a vario titolo nelle nostre vite e l’ingranaggio – la macchina appunto – in cui li incastriamo. Come hanno sottolineato anche altri, mai come in questo tempo di coronavirus l’ingranaggio ha messo in luce le sue contraddittorietà.
Il fatto è che l’ingranaggio si è inceppato e qualcosa è andato storto, rendendo evidente ed urgente la necessità di ripensare diversi aspetti legati ai nostri rapporti con gli animali, non solo quelli selvatici, protagonisti quasi certi del meccanismo all’origine della pandemia, ma anche quelli domestici, come gli animali da compagnia, abbandonati per le strade perché possibile fonte di contagio o, al contrario, vittime dei nostri meccanismi di umanizzazione.
C’è tuttavia una ‘categoria’ di animali, ancora più ‘fantasma’ delle altre, che ha evidenziato in modo particolarmente drammatico questa necessità di ripensamento: la categoria degli animali da allevamento. Se questa categoria, già in condizioni di normalità, rappresenta davvero l’ultimo fantasma dell’ingranaggio, lontano dalla percezione quotidiana e lontano, perlopiù, dalle nostre attenzioni, nel tempo dell’epidemia ha visto sommarsi su di sé tutte le contraddizioni del sistema, nel silenzio quasi totale.
L’epidemia di COVID-19 infatti, un po’ in tutto il Mondo, ha visto svilupparsi alcuni importanti e pericolosi focolai di contagio in un ambiente particolare come gli impianti di macellazione. In quei luoghi, le condizioni di lavoro impongono al personale una vicinanza e una promiscuità che sono probabilmente all’origine, assieme ad altri fattori legati alle specifiche condizioni ambientali in cui avvengono le operazioni di macellazione, dell’insorgere a più riprese, anche nella fase di ‘riapertura’, dei focolai. Gli operai si sono ammalati e contagiati reciprocamente, e così le loro famiglie.
Questo ha determinato la chiusura degli impianti di macellazione, qua e là, dai più piccoli a livello locale ai più grandi a livello nazionale, per periodi più o meno lunghi un po’ dappertutto nei vari Paesi del Mondo industrializzato.
E se gli impianti chiudono, gli allevatori non possono inviare i loro animali alla macellazione e si trovano con il problema di dover smaltire il ‘surplus’: in condizioni normali, infatti, i ritmi di allevamento intensivo degli animali da reddito impongono tempistiche rigide, al di fuori delle quali mantenere gli animali in vita risulta economicamente svantaggioso sia per gli allevatori sia per il mercato della carne.
Gli allevatori, così, si sono trovati a dover gestire milioni di animali ‘fantasmi’ che non sapevano dove mettere, considerando che mantenerli in vita avrebbe comportato l’interruzione del ciclo continuo tipico del sistema industriale di allevamento, in cui è previsto che subito dopo l’eliminazione degli animali che hanno raggiunto l’età per la macellazione, inizi un nuovo ciclo di allevamento con nuovi animali.
Ci sono stati diversi suicidi tra gli allevatori e innumerevoli episodi di moral distress: nel silenzio quasi totale queste figure professionali si sono trovate a dover gestire un problema enorme, eppure marginale rispetto alle emergenze determinate dalla pandemia.
Negli Stati Uniti, ad esempio, il fenomeno si è verificato in tutta la sua portata. ‘Il Coronavirus ha fatto inceppare l’industria della carne negli Stati Uniti’, “I produttori USA ‘a rischio’ di dover sopprimere gli animali negli allevamenti”, così titolavano i giornali, e qualcuno, anche in Italia, ha scritto che
“I maiali sono come il petrolio: ormai sono troppi negli Stati Uniti e non si sa più dove metterli da quando i macelli e le fabbriche per la lavorazione delle carni, uno dopo l’altro, hanno cominciato a chiudere per il coronavirus. Mentre salsicce e braciole sono sempre più scarse nei supermercati statunitensi, i capi di bestiame hanno perso valore. Al punto che gli allevatori si avviano a scelte disperate pur di contenere le perdite” (Sissi Bellomo, 24 ore professionale)
Il problema di fondo, in verità, è di più ampio respiro e riguarda in generale le modalità di gestione degli animali nelle emergenze: c’è una linea di riflessione in etica, denominata etica animale in emergenza – animal ethics in emergency – che si occupa di questo, allo scopo di stabilire, se pur con grande difficoltà, dei criteri, dei principi e dei metodi per affrontare le emergenze, senza abdicare – o il meno possibile – a valori socialmente condivisi.
L’etica dell’emergenza, tuttavia, era impreparata ad una emergenza come questa, determinata dall’ingranaggio medesimo. Che ne è stato allora dei milioni di animali da allevamento che non potevano essere macellati e, al contempo, non potevano rimanere vivi? Sono stati spesso soppressi in massa nel silenzio, utilizzando la CO2 o sistemi come il ventilator shut down (VSD) – chiudendo tutto cioè e spegnendo gli impianti di ventilazione dentro i capannoni. Alcuni allevatori hanno cercato di ricollocare i loro animali in altri luoghi, alcuni anche nei rifugi dedicati, ma i numeri imposti dal sistema di allevamento industriale hanno reso l’impresa molto ardua.
Le immagini degli allevatori che dovevano scavare fosse comuni dove accumulare i corpi senza vita di tutti questi animali ‘fantasmi’ evocano tristemente altre immagini che abbiamo visto durante la pandemia. Ed era successo anche qualche mese prima con la grave epidemia di febbre suina africana nei Paesi Asiatici, che aveva quasi messo in ginocchio gli allevatori di suini in quelle aree.
C’è qualcosa che non va nell’ingranaggio, allora, e i fantasmi sono dappertutto nelle nostra modalità di interazione con gli animali, dagli animali da compagnia agli animali selvatici agli animali da reddito, appunto, invisibili e dimenticati.
Gli allevatori, però, o gli addetti agli impianti di macellazione, che sono stati coinvolti a vari titolo nella soppressione di questi milioni di fantasmi, difficilmente li dimenticheranno.