SCIENZA E RICERCA
Il bosco avanza ed è una miniera di risorse
Tartufi, funghi porcini, erbe aromatiche. Alzi la mano chi non è mai stato trascinato nei boschi a raccoglierli da qualche amico appassionato o, più semplicemente, non ne ha apprezzato il sapore a tavola. È proprio su questi prodotti, i cosiddetti prodotti forestali non legnosi, che oggi si concentra l’attenzione, anche allo scopo di favorire lo sviluppo delle economie rurali. E in quest’ottica la Commissione Europea per la prima volta ha deciso di investire nel settore con un progetto di ricerca triennale, StarTree, che si avvia quest’anno alle sue battute finali e vede coinvolta anche l’università di Padova.
Tradizionalmente il legname è il prodotto principale che si ricava dalle foreste. Tuttavia, la crisi economica degli ultimi anni, l’aumento dei costi per l’estrazione del legname nei territori montani e i processi di sostituzione e importazione ne stanno rendendo sempre meno conveniente la produzione. Quest’ultima peraltro di bassa qualità e senza ripercussioni significative sulle economie locali. A ciò si aggiungano episodi di abbandono e di degrado o fenomeni come incendi e attacchi parassitari.
“Da qui – spiega Davide Pettenella, docente del dipartimento di Territorio e sistemi agro-forestali dell’università di Padova e membro del gruppo di lavoro internazionale – nasce l’opportunità di valorizzare quelli che un tempo erano i prodotti secondari e che in alcuni casi rappresentano interessanti fonti di reddito. Sughero, resina, pinoli, castagne, funghi, tartufi, tannino, erbe aromatiche e medicinali, erbe da decorazione: si tratta in molti casi di prodotti di nicchia, molto legati al territorio che tuttavia possono costituire un’opportunità in più per l’Italia”.
I prodotti forestali non legnosi rappresentano spesso beni di primaria importanza. A livello mondiale, evidenzia il docente in un recente intervento, per coprire i propri fabbisogni essenziali 1,2 miliardi di persone ricorrono a questi prodotti, 60 milioni di indigeni trovano nelle foreste la quasi esclusiva fonte di sussistenza e in Asia 1,8 miliardi di individui utilizzano piante selvatiche a scopo medicinale. L’Italia è il maggiore esportatore di castagne a livello mondiale e tra i cinque maggiori importatori di sughero e derivati, al punto che la domanda interna ha frenato le esportazioni.
Si tratta evidentemente di prodotti adatti alla trasformazione industriale che alimentano una filiera su larga scala, ma non va trascurato che possono tramutarsi anche in servizi a partire dal settore turistico-ricreativo. Si pensi ad esempio alle strade del vino, del fungo porcino o del tartufo, solo per citarne alcune, che permettono di rivitalizzare molte attività locali, dall’agriturismo, ai musei rurali, alle attività di ospitalità fino alle iniziative di educazione ambientale. E si trasformano, in questo modo, in “prodotti immagine” di promozione e integrazione territoriale. O si pensi ancora alle Città del castagno, associazione che, con 110 enti collinari e montani partecipanti, promuove la coltura/cultura del castagneto.
“Per valorizzare i prodotti forestali non legnosi in una logica economica – spiega Pettenella – e quindi far sì che diventino una fonte di reddito per chi gestisce la foresta e vive nei territori montani è necessario introdurre particolari accorgimenti. E dunque regole per la raccolta, introduzione di licenze e tesserini, cambiamenti dei diritti di proprietà”. Da questo punto di vista, ad esempio, l’Italia rappresenta il modello a livello mondiale per quel che riguarda funghi e tartufi. “È fondamentale far crescere le conoscenze relative a questi prodotti, aumentare la consapevolezza pubblica della loro importanza, migliorare le tecniche di coltivazione e commercializzazione”. E questo stimolando l’associazionismo forestale, l’utilizzo di marchi e sistemi di certificazione di una buona gestione forestale (Forest Stewardship Council), introdotti questi ultimi in Italia proprio dall’università di Padova. Ma anche tutelando particolari tipi di lavorazione del prodotto e incentivando l’imprenditorialità. Il proprietario forestale oggi si è allontanato non solo “fisicamente” dalla sua proprietà, ma anche “culturalmente” e ciò a scapito di una gestione diretta che aveva caratterizzato i secoli precedenti. Per questo l’esistenza di forme associative tra i proprietari, di imprese di servizio che si sostituiscano al proprietario nella gestione diventa fondamentale.
“In un momento in cui gli interessi per il legname stanno diminuendo – afferma il docente – possedere una gamma di prodotti che può risultare redditizia diventa importante per motivare una gestione attiva che induce un’attività di sorveglianza e tutela del bosco”.
Va detto che negli ultimi anni in Italia sono stati significativi gli sviluppi nelle attività di gestione forestale. Esistono ad esempio asili in foresta in cui l’attività educativa viene svolta in larga parte nei boschi. Sorti in Danimarca negli anni Cinquanta del Novecento, la prima esperienza italiana si colloca a Povo in provincia di Trento. Nei boschi si possono ascoltare concerti e svolgere attività sportive, come nei “parchi avventura”, ma anche mountain biking, equitazione ed “orienteering”, cioè percorsi di orientamento. E ancora, i boschi vengono utilizzati per progetti di impatto sociale, come nel caso del recupero e reinserimento di detenuti che si occupano di lavori di manutenzione forestale. Senza contare i servizi di carattere ambientale connessi a una buona gestione forestale, che vanno dalla tutela idrogeologica del territorio e a quella della biodiversità, alla fissazione del carbonio nelle biomasse forestali, alla riduzione della concentrazione di gas serra nell’atmosfera.
“Tutto ciò – spiega Pettenella – rientra nella logica di diversificare l’impiego, di valorizzare un patrimonio forestale dimenticato, dato che di fatto il livello di percezione del ruolo della foresta nel nostro Paese da parte degli italiani stessi è del tutto distorto”. È diffusa infatti l’idea che il patrimonio forestale stia diminuendo, mentre non sono mai esistite tante foreste negli ultimi 200 anni come oggi, se si considera che costituiscono un terzo del patrimonio fondiario italiano. E a quanto pare le risorse che se ne potrebbero trarre, con impatti sia economici che sociali, sono molteplici.
Monica Panetto