SOCIETÀ

Chernobyl, 30 anni dopo

Era scoccata da poco la mezzanotte del 25 aprile 1986 – trent’anni fa – e Pripyat era ancora una città ucraina ignota ai più, al confine con la Bielorussia. L’acqua scorreva calma nel fiume omonimo, affluente del Dnepr. Pochi giorni dopo, il primo maggio, era prevista l’apertura di un nuovo parco cittadino, che aveva tra le principali attrazioni una ruota panoramica.  

Pripyat era stata fondata solo pochi anni prima, nel 1970, in concomitanza con l’avvio della costruzione della prima centrale nucleare nel territorio ucraino, l’impianto di Chernobyl. Che in quei giorni produceva circa il 10% del fabbisogno elettrico ucraino. E fu proprio poco dopo la mezzanotte, alle 1:23 del mattino del 26 aprile, che una drammatica combinazione di errori umani, sottovalutazioni, negligenze – unita a una progettazione dell’impianto gravemente carente in termini di sicurezza – causò uno dei due più gravi incidenti nucleari della storia, che sconvolse la vita degli abitanti della cittadina e delle regioni limitrofe. Un incidente che insieme a quello di Fukushima è l’unico ad essere stato classificato al massimo livello di gravità – il livello 7 – della scala Ines (International Nuclear and Radiological Event Scale) e ha influenzato in maniera drammatica la storia dello sfruttamento pacifico dell’energia nucleare.

Storia che, per una coincidenza, registra un altro importante anniversario. Proprio 65 anni fa infatti, il 20 dicembre 1951 ad Arco, nello stato americano dell’Idaho, entrava infatti in funzione il primo impianto per la generazione di energia elettrica da fissione nucleare, il reattore Ebr-I. Una macchina che all’accensione fu in grado di produrre sufficiente energia elettrica per illuminare quattro lampadine da 200 watt: un’inezia dal punto di vista energetico, ma una tappa fondamentale nello sviluppo dell’energia nucleare per fini pacifici. Erano passati solo tredici anni dalla scoperta della fissione nucleare da parte di Otto Hahn, Lise Meitner e Fritz Strassmann, nel 1938. Una reazione nella quale un nucleo pesante, come quello dell’Uranio, si scinde in nuclei più leggeri con rilascio di energia. Scoperta seguita nel 1942 dall’esperimento con cui Enrico Fermi aveva dimostrato la prima reazione di fissione a catena, il processo che sarebbe poi stato usato per la produzione di energia elettrica. 

La produzione di energia elettrica da fissione raggiunse nel 1986, dopo una rapida crescita nei due decenni precedenti, una frazione di circa il 16% della produzione totale nel mondo. Chernobyl segnò un brusco rallentamento in questa tendenza: nei quindici anni precedenti al 1986 in media erano entrati in funzione circa venti nuovi reattori all’anno, cinque anni dopo l’incidente il numero era sceso a quattro.

Quella mattina a Chernobyl era previsto un test programmato, che avrebbe dovuto consentire il controllo di alcuni nuovi apparati per la sicurezza della centrale. Purtroppo un misto di impreparazione, negligenza e violazione di regole rese l’impianto instabile e causò una serie di esplosioni. Queste esplosioni furono di tipo convenzionale e causate da un repentino innalzamento della pressione nel sistema di raffreddamento e dal contatto di idrogeno – prodotto dalla scomposizione dell’acqua – e grafite incandescente con l’aria. Come conseguenza il tetto dell’edificio di contenimento fu distrutto e il reattore stesso scoperchiato, il che comportò il rilascio in atmosfera di ingenti quantità di materiale nocivo, in particolare di Iodio e Cesio radioattivi. I quarantacinquemila abitanti di Pripyat furono evacuati nei giorni successivi all’incidente e oltre trecentomila persone abitanti in un raggio di circa 37 km attorno alla centrale dovettero abbandonare le loro case. 

Sulla valutazione delle conseguenze per la salute e sul numero di vittime dell’incidente si è lavorato e scritto molto – con opinioni non unanimi – e non bastano certo poche righe per darne conto in maniera approfondita. Si possono trovare in rete molte fonti, tra le quali il rapporto dell’Unscear, il comitato scientifico delle Nazioni Unite per l’analisi degli effetti della radiazione atomica, quello dell’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, un’ampia documentazione della Iaea, l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica dell’Onu e studi di altre organizzazioni

Gli studi in materia di solito sono prudenti, anche perché gli effetti a lungo termine di basse esposizioni a radiazioni sono ancora oggetto di analisi. Il rilascio di radioattività non è poi purtroppo stato dovuto solo agli incidenti di Chernobyl e Fukushima: tra gli anni ’50 e ’60 un'enorme quantità di materiali radioattivi è stata rilasciata in atmosfera dai test di ordigni nucleari. Secondo il rapporto Iaea, pubblicato dieci anni dopo l’incidente, in termini quantitativi i test atomici delle superpotenze hanno immesso in atmosfera una quantità di materiale radioattivo circa 100-1000 volte maggiore di quello di Chernobyl (anche in questo caso non è facile paragonare gli effetti). 

Oggi, trent’anni dopo Chernobyl, con un contributo dell’11% a livello mondiale, la fissione nucleare rimane una componente molto importante dell’attuale paniere di produzione di energia elettrica, e potrebbe rimanerlo anche per i prossimi decenni, in un mondo pressato dall’urgenza della questione ambientale Per limitare i danni peggiori dei cambiamenti climatici e raggiungere l’obiettivo della recente conferenza Cop21 di Parigi, cioè quello di contenere entro i due gradi l’aumento della temperatura media in questo secolo, è infatti necessario raggiungere la “carbon neutrality” – ovvero azzerare le emissioni di CO2 – tra il 2050 e il 2100. Considerando che l’uso dell’energia è responsabile per circa il 70% delle emissioni globali di gas serra e che la CO2 è generata da fonti fossili come carbone, gas e petrolio, limitare effetti drammatici per il pianeta richiede cambiamenti strutturali nella produzione di energia elettrica, che da sola causa quasi un terzo delle emissioni di gas serra. E se la ricerca lavora su una fonte pulita e potenzialmente illimitata come la fusione per la seconda metà del secolo, nel futuro immediato – i prossimi decenni – gli obiettivi della Cop21 impongono una forte crescita delle rinnovabili e un ripensamento strutturale sull’energia. In un contesto come questo è realistico pensare che sul breve-medio termine sarà valutato anche il ruolo della fissione che, pur con i suoi aspetti negativi (scorie in primis), nel ciclo di vita di un suo impianto ha emissioni di CO2 comparabili a quelle degli impianti basati su rinnovabili. Per saperne di più questo proposito si può consultare il materiale di un evento alla Cop21 proposto congiuntamente dalla Iaea e dalla Nea, l’Agenzia dell’Energia Nucleare dell’Ocse.

Non è certamente un discorso facile e occorre valutare con attenzione pro e contro. Qualunque sia la posizione, è però importante che quando si parla di energia, nucleare o meno – soprattutto di fronte a una situazione climatica così grave – si eserciti discernimento, si abbia e si produca buona e variegata informazione e si evitino pregiudizi. 

Produrre e usare energia può essere pericoloso per la salute e dannoso per l’ambiente quando è fatto in maniera inappropriata, come Chernobyl purtroppo ci ha insegnato, ma come dimostrano anche i sette milioni di decessi all’anno che l’organizzazione mondiale della sanità stima siano dovuti all’inquinamento dell’aria, in buona parte legato all’uso di combustibili fossili. Un spunto interessante è offerto da un articolo di Markandya e Wilkinson pubblicato su Lancet, che mette in relazione il numero di morti dovuti all’inquinamento e a incidenti connessi con le emissioni di CO2. Pur se relative al periodo fino al 2007, anno di pubblicazione, le conclusioni dello studio affermano che la generazione di elettricità da carbone, lignite e petrolio è in cima alla classifica tra le fonti più pericolose per la salute e inquinanti. 

Non si può però rimanere passivi. Di energia il mondo ha bisogno, soprattutto per metter fine al dramma della povertà: disponibilità di energia significa infatti mediamente migliore qualità della vita, minore mortalità infantile e più istruzione, come evidenziato anche dallo Human Development Index delle Nazioni Unite. Ai governi e alle istituzioni il compito fondamentale di proporre politiche sagge e mettere a disposizione investimenti adeguati per ricerca e sviluppo. Al mondo delle ricerca, pubblica e privata, quello di concentrarsi su soluzioni innovative , sicure e sostenibili e di comunicare in maniera completa e trasparente. A tutti noi invece il compito di informarci e andare sempre a fondo dei problemi energetici, per operare scelte consapevoli e non delegare ad altri la gestione di un ambito a tal punto cruciale e strategico per la nostra economia e la nostra intera vita.

Piero Martin

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