SOCIETÀ

Commedia dell'Arte, la storia e i miti

“La Commedia dell’Arte non esiste”: così esordiva in anni non troppo lontani la presentazione di una prestigiosa rivista di studi specialistici (Commedia dell’Arte. Annuario internazionale, 1, 2008).

L’affermazione, provocatoria ma non priva di verità utili per accostarsi correttamente a questo complesso fenomeno, veniva da insigni studiosi di Commedia dell’Arte (Siro Ferrone e Annamaria Testaverde). La contraddizione è solo apparente, poiché, seppure la questione sia complessa, si tratta qui di cercare possibili risposte al quesito: di che cosa parliamo quando utilizziamo questa espressione?

Parte della “fascinazione” esercitata da questo mondo teatrale (per riprendere il titolo di un importante volume degli anni Settanta dedicato alla Commedia dell’Arte e la società barocca) emana dal fatto che essa non si possa definire in modo univoco: un universo che porta con sé differenze, geografiche e cronologiche, risultante dalla stratificazione di fenomeni complessi; e degli sguardi che su quei fenomeni si sono posati. Sguardi di uomini di teatro, di testimoni e di artisti che l’hanno ritratta, non raramente reinventandola e consegnandola ad altre traiettorie della storia (valga per tutti il caso del geniale Jacques Callot). Sguardi di spettatori avvicendatisi dal Cinquecento ai nostri giorni e, almeno dall’Ottocento, di studiosi che si sono dati la pena di rinvenire, studiare e catalogare fonti d’archivio: corrispondenze, pagamenti, liste di spesa e tutto quanto serve alla ricostruzione del teatro materiale, sdipanando i fili della storia e della filologia accanto agli infiniti e liberi percorsi dell’immaginario. Percorsi che hanno sollecitato gli artisti di ogni epoca a continue riletture, rovesciamenti e reinvenzioni. Per questo la Commedia dell’Arte può essere un caso di studi esemplare: un fenomeno che attraversa i secoli intrecciando dati storici e reviviscenze mitiche, tessuti insieme in un groviglio traboccante di fruttuosi fraintendimenti.

Già è emblematico che ci si riferisca spesso all’epoca delle “origini della Commedia dell’Arte” (la prima metà del ’500), utilizzando un’endiadi – divenuta consuetudine - che risale a un momento di due secoli successivo. All’epoca della nascita della cosiddetta Commedia dell’Arte la definizione non esisteva; eppure esisteva il mondo delle pratiche attoriali e sceniche che Goldoni così chiamerà, non senza riserve, nel suo Teatro comico (1750).

Dunque le origini, la storia, le carte d’archivio: è nella nostra città, a Padova, che il 25 febbraio 1545 otto “compagni” si riuniscono di fronte ad un notaio per firmare un contratto che li vincola a recitare uniti in “fraternal compagnia” sino al Carnevale dell’anno successivo (la Quaresima imponeva poi di sospendere ogni attività comica), cioè per un anno e, almeno in linea di principio, continuativamente: non più per diletto ma per mestiere. Il documento, conservato nell’Archivio di Stato di Padova (Archivio notarile, Vincenzo Fortuna Instr., b. 4319, cc. 171-172), viene reso noto per la prima volta nel 1915 da Ester Cocco, che ne pubblica la trascrizione nel Giornale storico della letteratura italiana (Una compagnia comica nella prima metà del secolo, vol. LXV, a. XXXIII, fasc. 193, 1915, pp. 55-70).

Oltre a menzionare tutti gli attori, il contratto definisce i termini economici: l’equa ripartizione dei proventi, chi terrà cassetta, gli accordi per le tournée e anche una sorta di cassa previdenziale in caso di malattia di un sodale. Si fissano insomma, per la prima volta “da contratto” i cardini della moderna organizzazione e produzione teatrale: nasce l’impresa dello spettacolo.

Vale la pena sottolineare almeno un altro dato di questa carta d’archivio: gli attori – dunque, ora, di professione – sono tutti uomini. Di lì ad una ventina d’anni (1564), un altro documento importante registra per la prima volta il “mestiere” di attrice di una donna (un atto notarile custodito in questo caso all’Archivio di Stato di Roma).

Una vastissima letteratura di studi teatrali ha sviscerato i momenti salienti di questo fenomeno dal punto di vista artistico, dal recitare all’improvviso (cioè, sulla base del canovaccio, improvvisando il ‘montaggio’ di tessere testuali e recitative, ampiamente esercitate a monte), all’utilizzo della maschera, all’invenzione o rivisitazione delle parti fissate in tipologie di personaggi, per non citare che i dati più noti. Tutti motivi che condividono il dato storico e documentario con il versante mitico, ovvero il proliferare dei linguaggi e delle espressioni artistiche a partire da quei tratti originari. Accanto alla storia, dunque, il mito – che si incarna, a sua volta, nella storia successiva...

Prendiamo il caso più vistoso, la maschera di Arlecchino: inseguirne le origini, evoluzioni, tradizioni e tradimenti, significa attraversare epoche, culture, discipline: dal teatro all’antropologia, all’arte visiva, alla storia della lingua, al cinema. Senza dimenticare la letteratura, teatrale e non, eterna rivale ma anche complice dell’arte scenica. Perché dobbiamo ricordare che i maggiori comici si battono sì a difesa dell’arte puramente teatrale, ma partecipano anche della vita culturale ed erudita della loro epoca. Basterà citare la famiglia degli Andreini, Francesco e la celebre – padovana – Isabella, con il figlio Giovan Battista: tutti virtuosi attori e abilissimi manager della propria arte, ma anche scrittori e poeti. Basti questo dato a liquidare l’idea di una Commedia dell’Arte unilateralmente popolaresca, animata da guitti ciarlieri e cialtroni. Certo, anch’essi esistiti e tassello fondamentale del mito che tanto affascinerà prima i romantici, poi tutto un versante delle innovazioni novecentesche che ne colsero la forza vitale; segno inoltre di quel principio di mescidazione e di coesistenza di alto e basso che è altro tratto sostanziale della Commedia dell’Arte.

Nella cultura teatrale del secolo da poco trascorso l’immaginario scaturito sulle tracce della Commedia dell’Arte conosce una tappa fondamentale: la regia di Strehler che con il suo Arlecchino servitore di due padroni fonda una nuova tradizione, rilettura della rilettura di Goldoni. E torniamo a Padova, perché a questa tappa, che è tradimento nel senso etimologico di “portare altrove” e di “consegnare” a un altro tempo, danno un apporto fondamentale i maestri Sartori, creando com’è noto le celebri maschere di tutta la ‘stirpe’ degli Arlecchini strehleriani (Moretti, Soleri, Bonavera). Famiglia che ha reinventato e portato nel mondo l’arte della maschera – e con essa la reincarnazione “novecentesca” della Commedia dell’Arte - instillando nuova linfa tanto alla storia che al mito.

Cristina Grazioli

 

 

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012