SCIENZA E RICERCA
Alluvioni in Veneto: si sapeva in anticipo
I lavori per la realizzazione del bacino di laminazione di Caldogno (VI) in uno scatto di febbraio 2014. Foto: Massimo Pistore
Per far fronte ai danni causati dall’alluvione dello scorso febbraio in Veneto, la Regione ha recentemente stanziato 40 milioni di euro. Si tratta di un evento che ha superato quello del 2010 in termini di metri cubi d’acqua caduti sull’intera superficie regionale: 3.472 contro i 2.420, secondo i dati dell’Arpav, circa il 40% in più rispetto a quattro anni fa. Con non pochi danni sul piano economico. Eppure, a fronte di questa situazione, gli studi di previsione non mancano. E nemmeno le possibili soluzioni.
“Nel 2002-2003 – spiega Luigi D’Alpaos del dipartimento di ingegneria civile, edile e ambientale di Padova in un recente incontro padovano – si ipotizzò che lungo il canale Roncajette (il tratto finale del Bacchiglione) arrivasse una piena paragonabile a quella del 1966, la più grave di tutti i tempi”. Nel caso di uno straripamento all’altezza di Ponte San Nicolò si calcolò che le acque avrebbero impiegato 20 ore per arrivare a Bovolenta (una delle zone colpite sia nel 2010 che nel 2014) dove ci sarebbero stati 1,5-2 metri di acqua sul terreno. “Se nel 2010 – sottolinea D’Alpaos autore dello studio – quando fu dato l’allarme della rottura dell’argine a Bovolenta avessero avvisato i cittadini che l’acqua avrebbe raggiunto i due metri, probabilmente questi anziché sollevare il materiale dei loro capannoni di 50 centimetri come fu loro consigliato, l’avrebbero alzato di un metro e mezzo e forse i danni non ci sarebbero stati”. A ciò si aggiunga che il volume d’acqua esondato secondo il calcolo del 2002 era di circa 13 milioni e mezzo di metri cubi, come poi è effettivamente accaduto.
Quella del 2002 non fu l’unica circostanza in cui veniva sottolineata la situazione di rischio del Veneto. Ne parlarono D’Alpaos e Ghetti in un lavoro sul Sile nel 1985 e nel 1991 se ne discusse in un incontro all’istituto veneto di scienze lettere ed arti dal titolo Trasformazione del territorio e rete idraulica del Veneto. Gli studi dimostravano le responsabilità di una pianificazione territoriale poco attenta alla realtà idrografica, ma non furono presi nella dovuta considerazione.
In Veneto i problemi di difesa idraulica presenti sia in territori montuosi (come il controllo del trasporto del materiale solido e galleggiante) che di pianura (difficoltà a contenere le portate di piena e la difesa dagli allagamenti) sono aggravati, sostiene D’Alpaos, da errori di pianificazione territoriale che è stata attuata nella più assoluta ignoranza della rete idrica. In pianura, in particolare, esistono problemi sia a carico della rete idraulica minore (canali, fossi) che della rete idrografica principale, sottodimensionate rispetto alle portate da contenere. La rete idraulica minore, in particolare, è nata dalla necessità dell’uomo di occupare il territorio e di utilizzarlo a fini agricoli: i corsi d’acqua sono stati arginati, collegati tra loro. Dopo il 1850 si è ricorsi alle idrovore che hanno permesso di sfruttare anche le zone un tempo paludose.
Gli urbanisti sono intervenuti su un territorio concepito per uso agricolo, senza chiedersi se fosse necessario rivedere la rete idraulica esistente. In soli 50 anni si è assistito a una urbanizzazione diffusa con sempre maggiore cementificazione, all’eliminazione degli invasi disponibili nei fossi (spesso invece utilizzati per costruire piste ciclabili), alla realizzazione di fognature di tipo misto (raccolgono sia le acque di rifiuto urbano che meteoriche) e alla commistione tra reti fognarie e canali della bonifica.
Questa situazione ha aggravato la vulnerabilità di molte parti della nostra Regione, in conseguenza anche dell’aumentato valore economico dei beni da difendere.
Se l’uomo oggi ha senza dubbio le sue responsabilità, anche in passato non sono mancati gli errori. Per il Brenta si sconta la politica idraulica della Repubblica di Venezia, “a torto definita saggia gestrice delle acque” (non tanto della laguna ma dei territori circostanti) e del Piano Fossombroni-Paleocapa presentato nel 1835. Opera del massimo esperto di idraulica del tempo, ministro del granduca di Toscana, Fossombroni concepì il progetto principalmente per difendere Padova dalle piene del Bacchiglione. Tra gli interventi, si ricordano il collegamento tra il canale Piovego e il San Massimo e il canale scaricatore (dal Bassanello a Voltabarozzo), un taglio artificiale che dava la possibilità di allontanare fino a 300 metri cubi di acqua al secondo. Ma dal Bacchiglione potevano arrivarne fino a 800. I limiti del piano furono ben presto evidenti con le alluvioni del 1882 e dei primi anni del Novecento che interessarono Padova. Spettò all’ingegner Gasparini, del genio civile, porre rimedio alla situazione con un piano realizzato negli anni Trenta. Fu aumentata innanzitutto fino a 850 metri cubi al secondo la capacità dello scaricatore, che fu collegato al Piovego, e furono realizzate due strutture di manovra che permettevano di regolare i deflussi in arrivo sullo scaricatore: in questo modo le acque potevano essere immesse nel canale Roncajette o lungo il canale San Gregorio al Piovego e da qui al Brenta in corrispondenza di Strà. Una manovra quest’ultima che ancora oggi si esegue. Anche se le difficoltà non mancano: se si dirotta infatti verso il Roncajette una portata superiore a 500 metri cubi al secondo il canale esonda, mentre il Piovego e il Brenta hanno un bacino molto vicino e vanno quasi sempre in piena contemporaneamente.
Eppure le soluzioni non mancherebbero. “Nel vicentino – sottolinea D’Alpaos – è necessario costruire degli invasi, ma di ben altra portata rispetto a quelli che stanno realizzando e che reclamizzano ogni tanto”. Sarebbe infatti necessario disporre di almeno 10 milioni di metri cubi di invaso per trattenere i colmi di piena e non di 3-3,5 milioni e mezzo che è invece ciò di cui si disporrà.
Per quel che riguarda la zona del padovano, invece, è necessario completare l’idrovia. “A Voltabarozzo – continua D’Alpaos – le acque potrebbero essere prese attraverso il San Gregorio e il Piovego, convogliate nel Brenta e riprese dall’idrovia che le porterebbe per altra strada verso la laguna di Venezia, senza aggravare così la condizione di valle del Brenta”. In questo modo sarebbe possibile diminuire la portata d’acqua fino a 250-300 metri cubi al secondo e a valle di Voltabarozzo lungo il Roncajette i problemi per Casalserugo e Bovolenta sarebbero fortemente ridotti. Oltre a portare in sicurezza la zona industriale di Padova, messa in pericolo dal Brenta che rigurgitando il Piovego può esondare proprio in quest’area.
“Bisogna poi intervenire sul sistema fluviale, perché ci sono situazioni delle arginature che richiedono di essere riposizionate in quota, perché esistono degli abbassamenti che naturalmente si prestano a favorire l’esondazione”. E infine serve fare manutenzione su cui oggi non si investe più.
Nel 1846 Pietro Paleocapa nella Memoria idraulica scriveva che il Brenta rigurgitando il Piovego poteva allagare Camin, Noventa e la zona industriale. “A distanza di 150 anni – sottolinea D’Alpaos – oggi è esattamente quello che ancora accade e non si è nemmeno ritenuto di dare un’occhiata agli argini di San Gregorio e del Piovego che richiederebbero di essere riposizionati in quota in qualche tratto”. E il problema non sarebbe nemmeno tanto difficile da risolvere, se si considera che si tratterebbe di portare un po’ di terra sugli argini. “Ma questo sono 150 anni che si dice e 150 anni che non si fa. Probabilmente si crede molto nella protezione del Santo”.
Monica Panetto