SCIENZA E RICERCA
Alzheimer e Parkinson: una speranza dalla diagnosi precoce
“Penso sia fondamentale riconoscere quanto prima possibile persone che a distanza di 20, 25 anni svilupperanno patologie neurodegenerative come l’Alzheimer, perché è in quella fase che dobbiamo lavorare per sviluppare farmaci in grado di prolungare il periodo asintomatico o renderlo talmente lungo da far sì che la malattia non si manifesti in vita”. Le alterazioni a livello cerebrale sono presenti infatti diversi anni prima che la malattia dia segno di sé clinicamente. Massimo Filippi, professore di neurologia all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ritiene che la questione vada anche oltre. “Penso sia poco etico modificare di pochi mesi la durata di malattie gravi quando queste hanno già provocato una significativa riduzione della qualità di vita. Se vogliamo intervenire efficacemente, dovremmo essere in grado di farlo quanto prima e riconoscere la presenza della malattia anche in assenza di sintomi”. Adottando una terapia “aggressiva” fin da subito. Un programma importante, se si pensa che oggi queste malattie vengono diagnosticate solo alla comparsa dei primi sintomi, quando per certi versi è ormai tardi.
È in questa direzione che si sta muovendo negli ultimi anni il gruppo di ricerca di Filippi, a Padova nei giorni scorsi. L’obiettivo è di definire i meccanismi che portano alla perdita delle capacità cognitive e allo sviluppo di disabilità locomotoria tipici delle malattie neurodegenerative, attraverso l’applicazione di tecniche di neuroimmagine (risonanza magnetica, elettroencefalografia, Tac, Pet), e di individuare dei “marcatori”, dei segnali, che permettano una diagnosi precoce della malattia.
“Oggi – approfondisce Filippi – il protocollo che si segue nella diagnosi e nella terapia delle patologie neurodegenerative è spesso sempre lo stesso, indipendentemente dalla fase della malattia. Credo che sarebbe invece necessario identificare degli algoritmi specifici da applicare allo studio delle varie fasi delle malattie e alla valutazione dell’efficacia dei diversi farmaci a nostra disposizione”. È importante cioè misurare come si modificano nel tempo le lesioni cerebrali. Negli ultimi anni la situazione sta cambiando proprio grazie alla disponibilità delle tecniche di neuroimmagine che hanno avuto un impatto importante anche sulla diagnostica. Si inizia a comprendere come evolvono le malattie dalla fase pre-clinica a quella avanzata.
I risultati non hanno tardato a venire. Ad esempio, se fino a questo momento la sclerosi multipla era considerata una malattia che colpisce la sostanza bianca del sistema nervoso centrale, un recente studio pubblicato su Neurology e coordinato da Filippi dimostra invece come un danno alla sostanza grigia sia un elemento chiave per predire (13 anni prima) lo sviluppo a lungo termine di disabilità locomotoria e di alterazioni delle capacità cognitive.
“Un’altra possibilità interessante – continua Filippi – è quella di studiare la ‘connettomica’ cerebrale, di ricostruire cioè l’architettura strutturale e funzionale dell’encefalo umano, partendo ad esempio dai dati di risonanza magnetica funzionale a riposo, e di vedere come questa venga alterata dalla malattia”. Si provi a immaginare gli aeroporti distribuiti sulla superficie terrestre: chiudere quello di New York, crocevia di voli da tutto il mondo, non è lo stesso che chiudere quello di Milano Malpensa. La stessa cosa accade nel cervello. Esistono aree che veicolano una serie maggiore di informazioni in entrata e in uscita ed è dunque importante riconoscere quali regioni vengono danneggiate dalla malattia.
La risonanza magnetica consente dunque di rilevare sia i danni anatomici, le lesioni presenti, che le alterazioni delle funzioni cerebrali. “La risonanza dovrebbe essere vista come una sorta di esame patologico in vita – spiega Filippi – Esiste tuttavia da parte dei clinici una tendenza a prendere in scarsa considerazioni le informazioni offerte dalla risonanza magnetica, indice questo - dal mio punto di vista - di una scarsa attitudine alle nuove tecnologie”.
Le tecniche di neuroimmagine negli studi clinici hanno permesso inoltre di testare e validare l'efficacia di nuovi trattamenti immunomodulanti e immunosoppressori in pazienti con sclerosi multipla, mentre è ancora all’inizio l'uso di tali tecniche per valutare l'efficacia di nuovi trattamenti in pazienti con Alzheimer o Parkinson.
“Il futuro – spiega Filippi – consisterà nel passare da un aspetto quantitativo di conteggio delle lesioni cerebrali a un aspetto qualitativo, individuando cioè quali sono le caratteristiche ‘diagnostiche’ delle singole lesioni”. E aggiunge che forse si dovrebbe pensare anche a screening sulle popolazioni a rischio.
Accanto agli evidenti benefici per il paziente, riuscire a diagnosticare con largo anticipo le malattie neurodegenerative (in particolare l’Alzheimer e il Parkinson) potrebbe avere anche un peso sociale ed economico non indifferente, se si considera il progressivo invecchiamento della popolazione e dunque la ricaduta in termini di costi di assistenza. Si stima infatti che nel 2050 a livello mondiale una persona su sei avrà dai 65 anni in su, passando dai 531 milioni del 2010 a 1,5 miliardi, ma questo trend sarà molto più accentuato in Paesi quali il Giappone e la Corea o diverse nazioni europee, fra cui Germania e Italia, dove gli over-65 costituiranno un terzo della popolazione. “Investire oggi nella diagnosi precoce – conclude pertanto Filippi – significherebbe risparmiare domani”. Senza contare il miglioramento della qualità di vita.
Monica Panetto