SOCIETÀ
Caro elettore, sappiamo tutto di te
Foto: Reuters/Molly Riley
In alcuni Stati americani (dov’è previsto l’early voting) si sta già votando per le elezioni di medio termine, le cui urne apriranno martedì mattina. Gli elettori sono infatti chiamati alle urne per eleggere la Camera dei Rappresentanti, un terzo del Senato, 36 cariche di governatore e per votare in numerose altre elezioni locali e referendum. Con un’opinione pubblica europea concentrata prevalentemente su Isis, Ebola e problemi di bilancio degli stati membri dell’Unione, le elezioni americane di midterm hanno ricevuto poca attenzione, e questa si è focalizzata principalmente sulla probabile sconfitta democratica e la conseguente conquista repubblicana di Camera e Senato. D’altronde, nel 2010, l’affluenza totale fu di appena il 36,9%, segno che forse molti americani sono stanchi di essere chiamati alle urne così frequentamente e per così tante cariche elettive anche minori.
Da un punto di vista politologico, queste elezioni presentano però anche alcune caratteristiche di rilievo. La prima è legata al costo della campagna elettorale, ancora una volta in crescita. La spesa totale sarà vicina ai quattro miliardi di dollari, cifra che ovviamente rende questa tornata di midterm come la più costosa di sempre. Ma il dato più significativo è relativo all’ammontare della cosiddetta dark money, cioè i soldi raccolti e spesi da gruppi esterni a partiti e candidati (i cosiddetti PAC e SuperPAC) che dovrebbe attestarsi di poco al di sotto del miliardo di dollari. Si tratta di soldi la cui origine è difficilmente tracciabile e che confluiscono in grandi organizzazioni. Alcune vicine ai repubblicani come Americans for Prosperity e Crossroads e altre simpatizzanti democratiche come Patriot Majority. Questi gruppi investono soprattutto in spot elettorali, prevalentemente di negative campaigning e contribuiscono - come se ce ne fosse bisogno - a radicalizzare ulteriormente la contesa politica. I SuperPACs creati dai fratelli Koch (ricchissimi imprenditori da sempre impegnati a fianco delle cause conservatrici), per esempio, hanno realizzato decine di spot destinati alle sfide senatoriali più incerte, nel preciso intento di aiutare i repubblicani a conquistare la maggioranza del Senato. Come sempre, infatti, è negli stati-chiave (in questa tornata Arkansas, Georgia, Colorado e North Carolina in particolare) che si è concentrata gran parte della spesa elettorale.
Un altro dato interessante è stato quello relativo ai temi della campagna elettorale. Sorprendentemente si è infatti parlato poco del Patient Protection and Affordable Care Act – meglio conosciuto come ObamaCare – che è rimasto ai margini del dibattito politico. Nonostante esso rappresenti - nel bene o nel male – uno dei maggiori risultati conseguiti dall’amministrazione Obama, la campagna elettorale si è giocata soprattutto sui dati sul lavoro, sull’economia e anche su questioni estere quali crisi ucraina e situazione mediorientale. Inoltre, a polarizzare le sfide a livello locale, hanno contribuito anche questioni morali quali aborto e matrimonio omosessuale, ancora molto sentite – specie nelle zone rurali.
Per quanto riguarda la conduzione delle campagne elettorali, anche questa di medio termine è stata una campagna elettorale dominata dall’uso (abuso?) dei big data, cioè dalla capacità di aggregare dati sensibili e di definire al millesimo le caratteristiche dell’elettore (il target del messaggio). Questa ipersofisticazione ha però fatto perdere di vista l’elemento centrale delle campagne elettorali: il messaggio. Come riportato in un recente articolo del Washington Post, sono state investite somme cospicue nel reclutamento dei migliori esperti di big data e media digitali e nell’elaborazione dei più avanzati software atti a definire al millimetro il singolo elettore, ma facendo questo si è persa di vista la parte creativa. Nell’organizzazione delle campagne elettorali, infatti, le brillanti menti pubblicitarie, capaci di creare slogan e immagini vincenti sono ora in secondo piano rispetto a geni del computer, abili nell’aggregare dati e definire le caratteristiche degli elettori. Ma le due parti non possono essere scisse l’una dall’altra e la maggiore attenzione data ai big data ha finite col penalizzare l’aspetto creativo della campagna elettorale appena terminata, rendendola di fatto abbastanza “noiosa”.
Tornando agli aspetti più politici, è evidente che la probabile vittoria repubblicana con conseguente controllo di entrambi i rami del parlamento dovrebbe portare a una ulteriore paralisi decisionale. Il parlamento potrebbe bloccare ogni iniziativa presidenziale e a sua volta il presidente porre il veto su ogni intervento legislative proposto dai repubblicani. Alcuni studiosi, tuttavia, sostengono che in situazioni di governo perfettamente diviso le fazioni opposte tenderebbero ad assumersi maggiormente le proprie responsabilità e che quindi la situazione peggiore non sarebbe quella in divenire ma quella attuale, cioè dove Senato e Camera esprimono maggioranze diverse. Tuttavia, una cosa sulla quale molti concordano è che, con un parlamento solidamente repubblicano, è probabile che Obama si concentri maggiormente sulla politica estera, l’unica area in cui è sempre stato possibile, anche in condizioni normali, raggiungere accordi bipartisan. Ci si potrebbe quindi attendere un maggiore decisionismo statunitense nelle questioni internazionali, ambito in cui è stato spesso rinfacciata al presidente americano una certa carenza di leadership.
Marco Morini