SOCIETÀ

Diritto e interpretazione in una società liquida

C’era una volta lo stato moderno. Nato dalla rottura dell’unità politica e religiosa europea – con l’eclissi dell’impero e del papato – dal punto di vista giuridico esso poggiava su due dogmi fondamentali: la separazione tra diritto e morale e il monopolio da parte dello Stato dell’utilizzo della forza e, di conseguenza, della produzione normativa. Quella realtà oggi non esiste più da tempo, anche se qualcuno si ostina ancora a tramandarla come un mantra rassicurante.

Eppure una parte sempre più importante delle norme che oggi invochiamo e applichiamo derivano da soggetti non statuali, da organismi dalla natura sfuggente come ad esempio l’Organizzazione Mondiale del Commercio o l’Icann, l’ente non profit che regola Internet per mandato del governo americano. Allo stesso tempo gli ordinamenti giuridici appaiono sempre più sottoposti a stress anche al loro interno: le moderne costituzioni rigide, alcune delle quali nate lo scorso secolo dall’esperienza delle dittature e dei totalitarismi, hanno infatti irrimediabilmente scisso la validità e l’efficacia delle norme dal semplice rispetto dei loro processi di produzione.

Tutto questo fa sì che, proprio nel momento in cui l’opera di interpretazione diventa sempre più centrale, l’interprete veda anche vacillare alcuni di quelli che una volta erano i capisaldi della scienza giuridica, a cominciare dai concetti di fonte normativa e di gerarchia delle fonti. Affronta questi e altri temi La comprensione del diritto (Laterza 2012), l’ultimo libro di Giuseppe Zaccaria, docente di teoria generale del diritto, oggetto di un incontro–discussione che ha visto intervenire – oltre all’autore – Franco Gallo e Gaetano Silvestri, rispettivamente presidente e vicepresidente della Corte Costituzionale, assieme agli studiosi Luca Antonini e Baldassare Pastore.

Un libro sull’ermeneutica giuridica dunque, come si vede fin dal titolo che gioca sul significato ambiguo del termine “comprendere”: capire e penetrare il senso, ma anche racchiudere entro confini certi. Confini che oggi sono invece sempre più nebulosi e indefiniti. La Rivoluzione francese nel 1790 istituì il Tribunal de cassation proprio per impedire che i giudici potessero interpretare le leggi, arrivando a stravolgere il significato; oggi invece appare chiaramente, secondo l’autore, che “Il diritto è il risultato del lavoro dell’interprete, mentre la legge assomiglia sempre più a un semilavorato da cui spetta al giurista far derivare il prodotto finito”.

Il diritto è insomma “essenzialmente interpretazione”, sottolinea anche Luca Antonini durante il dibattito. A questo va aggiunto il ruolo peculiare che oggi i valori e i principi generali hanno guadagnato grazie al costituzionalismo moderno, come evidenzia Gaetano Silvestri nel caso dell’Italia: “Con la Costituzione il potere dei giudici è aumentato, perché questa rimodella continuamente l’ordinamento, anche al di là delle pronunce della Corte Costituzionale. Ad esempio colmando le lacune e orientando l’applicazione delle norme da parte dei giudici ordinari”.

È bene insomma riconoscere che l’applicazione concreta del diritto non può prescindere dall’interprete, dal suo modo di percepire il contesto storico e giuridico attraverso la lente della sua esperienza concreta. Sempre più quindi entrano a far parte dell’armamentario concettuale dei giuristi anche le speculazioni e i risultati della scuola dell’ermeneutica filosofica, a cominciare da concetti basilari come quelli di precomprensione e di circolo ermeneutico.

Qui però si apre il campo più dibattuto, ma forse anche più interessante della questione: come evitare che la necessaria e vitale attività interpretativa degeneri nell’arbitrio del singolo, proprio come temeva il legislatore francese del 1790? “Giusto sottolineare l’insopprimibile creatività dell’attività interpretativa, per quanto riguarda ad esempio ‘nuovi diritti’ come quello alla privacy e alla salubrità dell’ambiente – ha detto durante il suo intervento Franco Gallo - Credo però che si debba resistere alla tentazione di andare oltre e di auspicare, come fanno alcuni, un ritorno puro e semplice al diritto giurisprudenziale”. Le difficoltà e i principi, secondo il presidente della Corte Costituzionale, non possono giustificare interpretazioni meramente strumentali, che vadano al di là della lettera della legge: “La legittimazione sostanziale della giurisprudenza va pur sempre individuata nella sua fondamentale funzione di garanzia della legalità, anche costituzionale, e nel rispetto del principio della separazione dei poteri”.

Quello sugli strumenti e i poteri effettivi dell’interprete è insomma un dibattito che si svolge su un terreno impervio. Da una parte si registra l’ipertrofia normativa e, al contempo, una fiducia acritica nella capacità di autoregolarsi; dall’altra cresce il bisogno di regole, come desiderio di ricomporre in un tutto armonico il caos normativo. Proprio in questa tensione l’attività ermeneutica, così come intesa da Giuseppe Zaccaria, può però dimostrare la sua natura di “attribuzione di senso non meramente soggettiva o arbitraria”, bensì di “esperienza intersoggettiva” condotta nell’ambito di una comunità interpretativa, composta da giudici, avvocati, ricercatori, funzionari pubblici e da quanti entrino nel processo di interpretazione e applicazione del diritto.

Una comunità fondata sul metodo e sulla ragionevolezza delle argomentazioni, che non è un monolite ma un luogo di confronto tra le diverse posizioni, dove anche il disaccordo e il dissenso cooperativo possano dare un impulso all’evoluzione del sistema. Partendo sempre dalla realtà quotidiana, che è quella di un mondo sempre più multiforme e policentrico, e proprio per questo bisognoso di norme certe e condivise in cui riconoscersi.

Daniele Mont D’Arpizio

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