SCIENZA E RICERCA

Farmaci salvavita, dai campi di battaglia agli ospedali. A volte

Ridurre il tasso di mortalità tra i soldati feriti è da sempre uno dei maggiori problemi degli eserciti. I colpi subìti spesso non sono di per sé mortali, ma lo diventano per il tempo che passa fra il momento della ferita e l’arrivo nelle mani del chirurgo, lontano dai combattimenti. Il compito della medicina d’emergenza, sui campi di battaglia, è stabilizzare il più possibile i feriti, di modo che quell’intervallo non sia fatale. 

Questione di primaria importanza: salvare tutti i feriti riducendo al minimo le perdite non conta solo per le vite  risparmiate (e il denaro: si parla di professionisti il cui addestramento costa enormemente), ma per la sostenibilità politica stessa dei conflitti. Le opinioni pubbliche dei maggiori paesi, oggi, raramente condividono appieno le ragioni degli interventi armati. E perdite che rappresentano complessivamente anche solo una frazione di quelle di un unico assalto alla baionetta della Grande guerra possono portare ad un pressione dal basso insostenibile per i governi, come il ritiro di Francia, Spagna, Italia dall’Iraq negli anni passati conferma.

Un passo avanti verso la riduzione della mortalità dei militari nei conflitti sembra ora possibile grazie a una speciale schiuma in grado di bloccare le emorragie elaborata da Arsenal Medical, una società americana di bioingegneria. A finanziare questa ricerca, contribuendovi per 15 milioni e mezzo di dollari, la DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), l’agenzia per i progetti di ricerca avanzata per la difesa degli Stati Uniti d’America, la stessa cui dobbiamo ARPANet, la rete di comunicazione militare da cui si sviluppò Internet. Questa speciale schiuma a base di poliuretano, costituita da due diversi liquidi da iniettare nel soldato ferito, ha la capacità di solidificarsi espandendosi all’interno della cassa toracica, fino a occupare un volume di trenta volte superiore a quello iniziale. “L’azione esclusiva di questa sostanza – spiega il dottor Gilberto Regazzo, esperto in flebologia ambulatoriale – è quella di tamponare il sangue in eccesso prodotto dall’emorragia interna in atto nel soldato ferito. Il poliuretano di tipo sintetico ferma l’emorragia, ma non ricrea in alcun modo i tessuti. È una sostanza di facile utilizzo e può essere iniettata agilmente in qualsiasi infermeria da campo. Questa procedura permette di guadagnare tempo prezioso per condurre il ferito nell’ospedale più vicino e sottoporlo dapprima all’operazione chirurgica di estrazione della schiuma solidificata, e in seguito agli altri processi di ripristino delle funzioni vitali eventualmente compromesse.” I test pre-clinici svolti da Arsenal Medical su un gruppo di maiali hanno dimostrato come si sia raggiunta una percentuale di casi di sopravvivenza pari al 72%, nettamente superiore rispetto all’8% registrato in assenza dell’impiego della schiuma polimerica. Un esperimento le cui modalità, facilmente immaginabili, sono decisamente raccapriccianti, ma i suini hanno una fisiologia e dimensioni molto vicine alle nostre, sono economici e disponibili, e questo ne fa soggetti “ideali”.

Se i test verranno superati e l’impiego in casi di emergenza avrà successo, possiamo immaginare un rapido passaggio di questa tecnologia medica dalla medicina d’urgenza militare a quella civile, con un campo di applicazione privilegiato nei casi di traumi con emorragie interne, come per esempio incidenti stradali o sul lavoro. La schiuma antiemorragica elaborata dalla Arsenal non è però il solo ritrovato a svolgere questo compito. Un ulteriore salvavita largamente utilizzato, con eccellenti risutati, dall’esercito USA in Afghanistan e Iraq è l’acido tranexamico. Questa sostanza, che rallenta il flusso del sangue, è però attualmente disponibile solo in Giappone e Regno Unito, dove peraltro è acquistabile senza il bisogno di una prescrizione medica. Ciò che ne impedisce una larga commercializzazione è, paradossalmente, il suo costo estremamente ridotto, che si scontra con la ricerca di grandi profitti della case farmaceutiche, affatto intenzionate a produrlo rimettendoci tempo e denaro. L’acido tranexamico, quindi, viene acquistato dagli eserciti per la sua efficacia, ma non è affatto sostenuto e proposto ai sistemi sanitari dei diversi paesi dalle aziende produttrici, a differenza di medicinali maggiormente remunerativi. Uno studio condotto su 40 paesi ha dimostrato che, con un impiego maggiore di questo farmaco, potrebbero essere salvate quasi 130.000 vite in più all’anno nel mondo, apportando notevoli miglioramenti anche tra le corsie d’emergenza degli ospedali. Ma la lenta diffusione di questa sostanza e l’assenza di un dialogo internazionale costruttivo a riguardo fanno sorgere un interrogativo: si vogliono salvare vite umane o bilanci societari?

Gioia Baggio

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