SOCIETÀ
Francesca Borri e la solitudine del reporter di guerra
Foto: Reuters/Amr Abdallah Dalsh
“Adesso nessun giornale vorrà più farmi collaborare” diceva pochi giorni fa Francesca Borri, giovane scrittrice e reporter di guerra. Il suo articolo-denuncia sulla condizione dei giornalisti free lance, sfruttati dai media italiani che pubblicano i loro pezzi dal fronte pagandoli 50 euro, era stato da poco pubblicato sulla Columbia Journalism Review (la traduzione italiana è sulla Stampa) provocando molte discussioni in Rete, sia tra la gente comune che nella cerchia ristretta dei giornalisti. Francesca però non sembra molto soddisfatta di quest’impennata di popolarità: “Se possibile, oggi mi sento ancora più sola”, scrive sul suo profilo Twitter. E poi “Dove siete tutti? sono l'unica freelance, oggi? Non voglio l'ennesima mail di solidarietà: voglio che parliate pubblicamente, diamine”.
Francesca non è andata giù leggera. Pochi giorni fa l’abbiamo contattata via Skype per parlarne: “La qualità dell’informazione internazionale oggi in Italia è zero – dice secca – Spesso escono pezzi confezionati da stagisti, anche su quotidiani importanti, che li riprendono a loro volta dalla stampa estera. Ci sono certamente anche grandi professionisti, singole eccezioni che però non sono sufficienti”. E i giovani? “Ce ne sono di bravi, ma tra noi non ci sentiamo. C’è poi un buco tra noi e i vecchi inviati, manca la trasmissione di saperi e di esperienze. Non abbiamo maestri, non c’è un sostegno e questo lo senti, soprattutto nei momenti più difficili”.
Cosa significa oggi fare il reporter free lance, in particolare dalle zone di guerra? “Essere soli. Drammaticamente soli e non solo da un punto di vista logistico. Alla fine niente può ripagarti di quello che perdi”. Eppure tra poco Francesca tornerà al fronte. “Vado in Egitto, quindi in Siria. Poi tornerò a Taranto. Ho scritto dell’Ilva quando ancora non se ne parlava: le guerre non sono solo quelle combattute coi missili”. Intanto lavori a un altro libro? “Vorrei raccontare l’Afghanistan, Haiti, la Somalia, il Kosovo e il Libano. Sono le missioni di pace a cui abbiamo partecipato, con risultati molto diversi”.
Essere donna è stato mai un ostacolo, in particolare in un ambiente come il Medio Oriente? “La guerra è molto casuale, essere donna può essere a volte perfino un vantaggio. Ti permette di sfondare le barriere, di solito gli uomini non hanno problemi a parlare con me. La difficoltà vera è con i colleghi: si mettono in competizione, anche quelli anglosassoni. È la cosa più insensata di questo lavoro, ognuno fa per conto suo”.
Perché lavori spesso con i fotografi, alcuni molto famosi come Alessio Romenzi e Stanley Greene? “Quello delle immagini è un talento a sé, per questo mi piace lavorare con loro: amo il loro sguardo, e amo i nostri sguardi che si intrecciano e diventano una storia unica”. Eppure spesso non c’è molta collaborazione. “Anche questa è un’assurdità. Per i lettori è chiaro che le parole hanno bisogno delle immagini, come le immagini hanno bisogno di parole. Spesso invece c’è una specie di guerra tra giornalisti e fotografi. Per i miei pezzi di solito vado sul posto insieme a un fotografo; qualcuno riesce a fare tutte e due le cose, io no”.
Francesca Borri è stata un po’ ovunque: com’è che una giovane italiana finisce sui fronti di guerra? “Personalmente ho una formazione giuridica, sono arrivata nei Territori Palestinesi come mediatrice, poi ho lavorato con Mustafa Barghouti, uno degli artefici degli accordi di Madrid. Quelli in cui anche i palestinesi credevano, a differenza di Oslo”.
Dopo anni trascorsi nelle zone di guerra più difficili del mondo, Francesca non è ancora nemmeno iscritta all’Ordine dei giornalisti: “In realtà mi sento semplicemente una writer, una che scrive. Non mi rileggo mai, non mi definirei giornalista né scrittrice, anche se mi piace un certo giornalismo letterario, com’era quello quello di Terzani o di Kapuściński”.
La comunicazione spesso salta e si interrompe; quando riusciamo a ristabilirla Francesca è un fiume in piena di parole, di giudizi e di emozioni: “Quello che conta è la credibilità – continua la giovane reporter – L’ordine professionale oggi serve solo a difendere privilegi. Hanno dato il tesserino da giornalista persino a Mario Monti quando era premier. Io sono stata a lungo in Siria, già nell’agosto 2012, a raccontare la battaglia di Aleppo. Quando ho visto che proprio per quel servizio ero stata selezionata, unica italiana venuta dal nulla, per un importante premio giornalistico, per un momento ho avuto il momento di fierezza. Orgoglio per il mio Paese, come un atleta alle olimpiadi. Poi però ho pensato: ‘ma quale Paese?’”.
Beh, sei pur sempre italiana, e adesso stiamo parlando in italiano. “Questo è vero, ed è anche quello che forse caratterizza i miei pezzi, rispetto ad esempio al giornalismo anglosassone. L’approccio e il modo di scrivere sono completamente diversi, e questo lo devo alla cultura italiana”. C’è chi riconosce e apprezza il tuo stile: “Non c’è una ragione particolare... Ad esempio scrivo in prima persona perché voglio che la gente in quel momento stia al fronte insieme a me. Questo è il modo in cui per me ha senso raccontare una guerra, non contando il numero dei morti”.
Qual è oggi la situazione in Palestina? “Rispetto a prima è cambiato tutto. È finita la resistenza, oggi di fatto c’è un unico paese, diviso tra cittadini di serie A e quello di serie B. Sopra ci sono gli israeliani ebrei di origine europea, poi gli ebrei sefarditi e quelli di colore; infine i palestinesi, più sotto ancora i rifugiati. Una piramide in cui non fa piacere vivere, ci si sente complici”. Non è sempre meglio di una nuova Intifada? “La rassegnazione non è la fine del conflitto, è solo la sua accettazione. Mustafa Barghouti ad esempio, con cui sto per pubblicare un libro, è per la pace ed è un medico, una sorta di Gino Strada di queste parti. Eppure da 15 anni non può andare a Gerusalemme”.
E in Siria? “Le informazioni sono poche, i giornalisti sono tutti andati via. La Siria è dimenticata, mentre proprio in questi giorni è in corso un massacro ad Homs. Nessuno lo racconta, la città è inaccessibile. Per quanto questo sia incredibile, la verità è che Assad sta vincendo questa guerra, grazie soprattutto alle divisioni in seno all’opposizione. Adesso pensiamo tutti all’Egitto e lui ne sta approfittando”.
Forse perché alla fine il regime gode di un consenso maggiore rispetto a quello che si pensava...“Gli Assad sono stati senza dubbio abili a costruire un sistema di relazioni e di interessi. Quella di oggi non è una guerra di religione, ma tra chi si è arricchito col regime e chi è rimasto povero. Chiaro poi che su questa base si innestano odi di tutti i tipi, a partire da quello religioso”.
Daniele Mont D’Arpizio