CULTURA

Giornali Usa: la carta non guadagna più, l'online non ancora

Se complessivamente l’economia degli Stati Uniti si sta lentamente riprendendo dalla crisi, c’è almeno un’industria che continua a lottare per la propria sopravvivenza. Come emerge dal più recente rapporto del Pew Research Center, il giornalismo americano, e in particolare la stampa, non ha ancora trovato il modo di arginare il crollo dei profitti e i conseguenti tagli di personale causati in gran parte dalla rivoluzione tecnologica degli ultimi quindici anni. 

Al 2012, le entrate generate per i quotidiani dalle pubblicità su cartaceo erano meno della metà che nel 2006, un calo solo in parte rimediato dalla crescita delle pubblicità su digitale, che rappresenta ormai circa il 15% del totale. In pratica questo significa che, nel 2012, le edizioni cartacee dei giornali americani hanno perso 15 dollari, rispetto al 2006, per ogni nuovo dollaro guadagnato online. La conseguenza più immediata delle difficoltà finanziarie incontrate negli ultimi anni anche dalle testate più note è la drastica riduzione del personale delle redazioni. Dal 2000 al 2012 il numero di giornalisti impiegati a tempo pieno dai quotidiani è calato del 30%. Per la prima volta dal 1978, ci sono oggi meno di 40.000 professionisti del settore. 

“La situazione non è più così grave come durante la recessione, ma il declino della stampa continua”, dice Rick Edmonds, ricercatore presso il Poynter Insitute e co-autore della sezione del rapporto Pew dedicata ai quotidiani. 

Allo stesso tempo è vero che la fase più acuta della crisi ha costretto l’industria dell’informazione a ripensare completamente il modello economico che ha sostenuto il giornalismo negli ultimi decenni e a sperimentare nuove modalità per la ricerca di profitti, anche se per il momento con esiti non del tutto convincenti.

Oltre 400 testate negli Stati Uniti hanno istituito una qualche forma di paywall, imponendo ai lettori di pagare un abbonamento anche per accedere a contenuti digitali che erano stati a lungo offerti in maniera completamente gratuita. È questo il caso non solo del New York Times, che con 600.000 abbonati digitali sta ottenendo i successi più importanti in quest’area, ma anche di giornali locali, per esempio il Rutland Herald in Vermont

“L’aspetto più interessante del paywall è che istituzionalizza l’idea che i lettori debbano pagare per usufruire dell’informazione online – nota Edmons – però è ancora presto per dire quanto questo modello possa contribuire a livello di entrate e se è davvero utilizzabile da tutti i quotidiani”. Negli ultimi mesi, ad esempio, sia il San Francisco Chronicle sia il Dallas Morning News hanno deciso di revocare i rispettivi paywall per via di risultati deludenti.  

Altre pubblicazioni, a partire da Politico, hanno ideato un sistema a più livelli. Gran parte del sito è accessibile gratuitamente da tutti, ma chi è interessato a particolari approfondimenti deve sottoscrivere un abbonamento speciale. La speranza è che, all’interno della stessa testata, l’informazione più specializzata possa finanziare quella più generalista. Si tratta di un sistema – ben rappresentato dal Financial Times – sviluppatosi nell’ambito del giornalismo economico, cui non mancano i lettori disposti a pagare per ottenere notizie e analisi inedite sull’andamento dei mercati o la performance di questa o quell’azienda. E si dice che sempre più giornali ne stiano valutando l’adozione, a partire proprio dal New York Times. 

Di natura completamente diversa, ma pur sempre un tentativo di far fronte alla crisi del settore, è lo sviluppo del giornalismo no-profit, sostenuto da fondazioni senza scopo di lucro e da donazioni private. I maggiori successi in questo senso sono stati ottenuti da organizzazioni come ProPublica, che si occupa di giornalismo investigativo e ha già vinto numerosi premi Pulitzer, e da Kaiser Health News, che produce indagini relative al settore della sanità e della medicina. Funzionano secondo questo stesso modello innovativo anche testate in apparenza più tradizionali, come il MinnPost, quotidiano online che copre il Minnesota, e il Texas Tribune.  

“Penso che questi siano sforzi nobili che devono essere applauditi – dice Victor Pickard, professore presso la Annenberg School for Communication at the University of Pennsylvania. “Però non sono del tutto convinto che siano sostenibili nel lungo periodo.” Gli esperti intravedono due problemi in particolare per questo genere di organizzazioni. Innanzitutto, funzionano con redazioni ridotte al minimo, e dunque, che abbiano o meno successo, rischiano di rappresentare esperienze marginali rispetto ai problemi economici dell’industria dell'informazione. In secondo luogo, per sopravvivere queste pubblicazioni sono costrette a trovare continuamente nuovi finanziatori, giacché i fondi iniziali si prosciugano in fretta e non sempre chi ha donato soldi una volta è disposto a farlo di nuovo.

Più recentemente, si è aperta infine un’altra possibilità per il giornalismo americano in crisi. I grandi magnati dell’industria di Internet sembrano essere sempre più interessati al prestigio che solo la proprietà di una venerabile testata giornalistica può conferire. E così nel 2012 il co-fondatore di Facebook Chris Hughes ha acquistato The New Republic, una rivista di politica e cultura di tendenze liberal nata nel 1914. Più recentemente Jeff Bezos, fondatore del colosso dell’e-commerce Amazon, ha rilevato la proprietà del Washington Post. Di qualche settimana fa infine la notizia che Glenn Greenwald, ex-giornalista prima del sito americano Salon e poi del quotidiano inglese The Guardian e diventato famoso per aver pubblicato per primo le rivelazioni di Edward Snowden sul programma di spionaggio della NSA, è ora al lavoro per creare un nuovo servizio di informazione (ancora senza nome) che verrà finanziato dai miliardi di Pierre Omidyar, fondatore di eBay. 

La speranza di tutti è che, da un lato, i soldi di questi imprenditori permettano di tollerare anche lunghi periodi in perdita e che, dall’altro, il genio dimostrato nell'arricchirsi con Internet si trasformi in qualche modo in fattore di successo anche ai loro giornali. Naturalmente non mancano i dubbi. “Penso che il modello del “miliardario benevolo” sia ingannevole – dice il Professor Pickard – Non tutti sono benevoli e alcuni hanno interessi politici che vogliono servire acquistando queste testate”. 

Anche se molto bolle in pentola, il giornalismo americano, e in particolare la stampa, è ancora ben lungi dall’essere in salvo.

Valentina Pasquali

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