SCIENZA E RICERCA
Il microencefalo della discordia
Foto: Reuters/Shannon Stapleton
Qualcuno lo ha definito lo hobbit della discordia. I resti fossili buttati sul tavolo della controversia scientifica per far accapigliare gli antropologi. Stiamo parlando di Homo floresiensis, il “piccolo uomo” (o, forse, la “piccola donna”), scoperto nella caverna di Liang Bua, sull’isola di Flores, in Indonesia, nel settembre 2003 da un gruppo di ricercatori guidati dagli australiani Peter Brown e Mike Morwoodun. I primi resti, un cranio (battezzato LB1) e un femore, lasciano sconcertati gli addetti ai lavori. Perché appartengono a un essere, probabilmente di sesso femminile, vissuto all’incirca 18.000 anni fa, alto meno di un metro, con un cranio grosso come una mela (380 cm3), ma con i denti e altre caratteristiche da uomo adulto (forse una donna sui trent’anni).
Con un articolo firmato nel 2004, dieci anni fa, su Nature Peter Brown, Mike Morwoodun e i loro collaboratori avanzano la proposta che si tratti di un altro membro del genere Homo, un discendente dei primi erectus giunti in Asia 1,8 milioni di anni fa, che si è adattato alle condizioni dell’isola di Flores e, come spesso è successo nella storia evolutiva della vita dei mammiferi costretti in piccoli ambienti, ha progressivamente diminuito le dimensioni del proprio corpo. Il gruppo ha battezzato H. floresiensis, ovvero “uomo di Flores”, il nuovo ramo del sempre più grande cespuglio del genere Homo.
Il bello è che accanto ai resti della nuova star che i media ribattezzano “hobbit”, vengono trovati i resti di manufatti litici piuttosto sofisticati, risalenti a un lungo periodo iniziato 100.000 prima. Il che dimostra tre cose. La caverna di Liang Bua è stata abitata con continuità per decine di migliaia di anni. I padroni di casa hanno scritto una lunga storia culturale. I manufatti sono senza dubbio opera di H. floresiensis, perché i resti più antichi risalgono a un periodo in cui Homo sapiens, che pure è giunto a Flores e ha frequentato la caverna, non aveva ancora messo piede in Asia. E poiché quei manufatti sono molto sofisticati è chiaro che H. floresiensis riducendo la sua capacità cranica non ha perduto le sue capacità cognitive.
Anzi, come sostiene un altro australiano, Mark Moore della University of New England, è molto probabile che sia stato lo hobbit a insegnare ai primi sapiens le sue tecniche. Già, perché i due gruppi – ormai gli antropologi hanno ritegno a parlare di diverse specie umane – hanno a lungo convissuto, malgrado la differenza di stazza.
Tutta questa ricostruzione è stata supportata nel tempo dal ritrovamento dei resti di altri otto H. floresiensis, tutti con le medesime caratteristiche di uomini in miniatura, vissuti tra 80.000 e 12.000 anni fa.
In questi dieci anni non sono mancate le polemiche. Robert Martin, del Field Museum di Chicago, per esempio, ha avanzato l’ipotesi che quello trovato da Peter Brown e Mike Morwoodun non sia il membro di una comunità di piccoli uomini, ma una donna sapiens malata di microcefalia. Ma due fatti falsificano questa tesi agli occhi della gran parte della comunità internazionale degli antropologi. Il primo è che i floresiensis trovati siano ormai nove e tutti con le medesime caratteristiche. Il secondo è che il cervello dei sapiens con microcefalia è strutturalmente diverso da quello di H. floresiensis.
Come (per fortuna) succede spesso nella scienza, gli scettici non depongono le armi. Ed ecco che, nelle scorse settimane, i Proceedings of the National Academy of Science (PNAS), la rivista dell’Accademia nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, quasi a voler celebrare il decennale della scoperta di H. floresiensis, pubblica un articolo in cui si avanza l’ipotesi che il piccolo uomo di Flores altro non sia che un portatore della sindrome di Down.
Ed è qui che la polemica sullo hobbit si riaccende e diventa al calor bianco. Perché va oltre i contenuti e diventa una “controversia sul metodo”. Sui contenuti, gli antropologi che credono nell’esistenza del “piccolo uomo” di Flores hanno facile gioco nel ribattere che i sapiens con la sindrome di Down mostrano caratteristiche morfologiche diverse e incompatibili con quelle dei fossili di Liang Bua. Quello pubblicato da PNAS è “cattiva scienza”.
Potremmo chiudere qui la partita se la controversia non investisse anche “il metodo”. Tra le firme di quest’ultimo articolo sulla rivista della National Academy of Science, infatti, c’è quella del cinese Kenneth Hsu, un idrologo e geologo di una certa età, 89 anni, e di grande fama, affiliato al Centro di sviluppo dei circuiti idrologici integrati degli Istituti Nazionali di Scienze della Terra di Pechino. Kenneth Hsu, che è un fiero avversario dell’evoluzionismo darwiniano, è anche membro della National Academy of Science degli Stati Uniti.
La “controversia sul metodo” riguarda due punti, che conviene discutere, perché hanno carattere generale. Il primo punto è che Kenneth Hsu non è un antropologo. Quindi, malgrado sia un grande scienziati, scrive di cose che non sa. Il secondo punto è che, in quanto membro della National Academy of Science, Hsu ha potuto scegliere i suoi referees, ovvero i colleghi esperti che giudicano criticamente un articolo scientifico prima che venga pubblicato.
Diamo la parola alla difesa, prima di fornire un nostro (del tutto ininfluente) giudizio sulla vicenda. Hsu, sostiene la rivista PNAS, è un insigne scienziato. Che è ingiusto accusarlo di “cattiva scienza”, perché le regole della ricerca le conosce bene. E che ha utilizzato con giudizio il diritto conferito ai membri della National Academy of Science, perché ha scelto, è vero, è referees, com’era suo diritto. Ma ne ha reso pubblici i nomi, con il loro consenso ovviamente. Dimostrando che anche loro si assumono piena responsabilità, “mettendo la faccia” sulla bontà scientifica dell’articolo.
Veniamo, dunque, al nostro (ininfluente) giudizio. Sui contenuti nulla da dire: la gran parte della comunità degli antropologi considera la tesi di Hsu e colleghi del tutto infondata. Quando al primo punto delle contestazioni sul metodo, c’è da dire che quello che conta non è chi propone, ma ciò che si propone. Se, nel 1905, Max Planck, editor per gli aspetti teorici degli Annalen der Physik avesse guardato a chi scriveva una serie di articoli rivoluzionari, un modesto impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna dal nome sconosciuto, Albert Einstein, li avrebbe cestinati. Ritardando di anni se non di decenni lo sviluppo della fisica teorica. Dunque, l’argomento Hsu non è del mestiere è infondato.
Molto più solido è, invece, l’altro argomento. La procedura utilizzata da PNAS, che riconosce ai membri della National Academy of Science un privilegio difficile da accettare per gli altri scienziati. Per quanto un po’ acida, è difficile non condividere la dichiarazione rilasciata a The Guardian da Richard Horton, il direttore della rivista medica The Lancet: questa sorta di privilegio nella comunità scientifica è morta con l’era vittoriana. Consentendo ai propri membri di scegliersi i referees, la National Academy of Science si comporta più come un club di cultori di scienza che come una comunità di ricerca. PNAS deve interrompere questa pratica, prima che si rovini la reputazione.
Pietro Greco