CULTURA

Il mito di Olimpia: contava solo la vittoria

Non c’erano siringhe, non esistevano farmaci sintetici, anabolizzanti, steroidi. Niente di tutto questo, ma il doping, o meglio, l’equivalente di quello che ora si chiama doping, era presente fin dall’antichità in quei popoli che facevano dell’agone sportivo un evento di grande importanza. Già l’etimo della parola affonderebbe le sue radici nell’antichità.

Una prima lettura spiega come il termine possa derivare dal finnico dop: una mistura di erbe che in epoca romana si faceva mangiare ai cavalli per farli correre più velocemente. Per altri studiosi il termine deriverebbe dalla parola dope di un dialetto boero che indicava una bevanda fortemente alcolica usata dalla tribù dei Bantu sudafricani come eccitante per le loro danze rituali. In tempi più recenti si pensa che l’origine del doping derivi dalla parola olandese doop, zuppa: una miscela eccitante usata nel XVII secolo dagli operai impegnati nella costruzione di Nuova Amsterdam, l’attuale New York. Il termine inglese dope fu preso dall’olandese e viene utilizzato per indicare la sostanza stupefacente. Ma se il doping moderno viene codificato per la prima volta a partire dal 1950, quando gli atleti della Germania dell’Est fecero un uso impressionante di sostanze illecite per garantirsi risultati sportivi di primo livello, quello antico affonda le sue radici nel periodo della Grecia classica.

Gli inventori dell’Olimpiade furono anche i primi a sperimentare pratiche per favorire gli atleti in gara. Al contrario della filosofia purista di Pierre de Coubertin, per i greci antichi l’importante non era partecipare ma vincere. La vittoria era la prova del valore sociale e fisico e chi non riusciva a primeggiare provava una tale vergogna - scrive Pindaro - da tornare a casa “per obliqui sentieri nascosti”. Vincere era così importante da rischiare il doping, anche se vietato già all’epoca dal regolamento.

Il giuramento olimpico, fin dal 776 a.C., a cui si sottoponevano atleti e allenatori, vietava esplicitamente l’uso di sostanze dirette a modificare le prestazioni atletiche durante le gare. E le punizioni erano severe: si passava dalla semplice squalifica, fino a punizioni corporali. Ciononostante, le pratiche per garantirsi l’alloro della vittoria (e con esso, a partire da Solone anche premi in denaro e diminuzione delle tasse) erano le più svariate. Le poleis assumevano istruttori e atleti celebri e pare anche specialisti di diete sportive, in grado di preparare miscele dopanti a base di erbe e funghi stimolanti o allucinogeni.

Si sa che Ippocrate chiedeva agli atleti di bruciare funghi secchi sul loro fianco sinistro, immaginando di aumentare la loro reattività. Galeno (discepolo di Ippocrate) somministrava agli agonisti erbe ergogene, funghi e testicoli di toro (forse il primo uso al mondo di ormoni di origine animale). Unguenti a base di semi di sesamo erano considerati all’ordine del giorno ma vietati dal giuramento olimpico. Nel panorama delle diete, si affermava il consumo smodato di carne per assicurare muscoli potenti e voluminosi. Nella preparazione di Milone di Crotone (vincitore di sei olimpiadi consecutive tra il 540 e il 512 a.C.) veniva usato un vitellino da carico per aumentare la resistenza dell’atleta (l’animale morto veniva caricato sulle sue spalle) e che poi finiva nello stomaco dello stesso. Si dice che Milone fosse solito mangiare fino a 10 chilogrammi di carne al giorno, assieme a dosi massicce di vino o di idromele. 

In epoca romana Plinio il Vecchio racconta di come i cavalli da corsa venissero “dopati” e di come i gladiatori fossero soliti bere per tre giorni un bollito di asperella. O peggio, come rito propiziatorio, bere il sudore dei compagni vincitori assieme a una mistura di sabbia e sangue lasciati durante il combattimento.

I giochi antichi vennero poi banditi dall’imperatore Teodosio perché considerati pagani e anche del doping si persero le tracce. Per ritrovarle si deve arrivare ai primi anni del Novecento.

Ai giochi olimpici di Saint Louis (1904), l’americano Thomas Hicks vinse la maratona che oggi viene ricordata come il primo caso di doping in diretta. L’atleta a circa 7 miglia dal traguardo, accusò infatti dei segni di stanchezza e il suo medico gli somministrò una dose di solfato di stricnina per via orale “assieme all’albume di un uovo - dice il medico nel rapporto di allora - Sebbene avessimo anche del brandy francese, ritenemmo utile non dargli altri stimolanti”. Un miglio dopo Hicks ebbe un altro calo fisico e gli venne data un’altra dose di stricnina, due uova e un sorso di brandy: “Nelle ultime due miglia - ricorda il medico - la sua azione pareva quella di un automa”. L’atleta vinse la maratona ma fu poi colto da un collasso durante il giro d’onore. In seguito spiegò di aver avuto allucinazioni in gara in cui pensava che il traguardo fosse molto più lontano rispetto alla realtà.

 

Mattia Sopelsa

Il maratoneta americano Thomas Hicks durante le Olimpiadi di Saint Louis del 1904

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