SOCIETÀ

Le Nazioni Unite e lo sport. L’ideale dell’olimpismo da de Coubertin a Parigi 2024

Le Olimpiadi di Parigi non sono solo l’evento sportivo dell’anno, ma anche un’occasione per parlare di pace e diritti umani. Il potenziale dello sport nella promozione di una pace duratura è al centro del libro “Le Nazioni Unite e lo sport. Dall’utopia della tregua olimpica, all’agenda 2030” della giornalista e scrittrice Antonella Stelitano, membro della Società italiana di storia dello sport e dell’Accademia olimpica nazionale italiana.

L’opera, pubblicata da CLEUP con la prefazione del professor Marco Mascia, del Centro di ateneo per i diritti umani “Antonio Papisca”, ripercorre la storia del rapporto tra le Nazioni Unite e il Comitato olimpico internazionale (CIO) fondato nel 1894 dallo storico e pedagogo Pierre de Coubertin. L’ambizioso progetto del barone francese non prevedeva semplicemente il ripristino della tradizione dei giochi sportivi che ai tempi dell’antica Grecia si svolgevano ogni quattro anni a Olimpia. De Coubertin sognava un futuro in cui l’attività ludico-sportiva, basata sulla condivisione di una passione, sul rispetto di regole comuni e sull’incontro tra persone provenienti da tutto il mondo, potesse diventare uno strumento di lotta alle disuguaglianze sociali e una via per la pace universale.

In questo ideale di cittadinanza sportiva e fratellanza globale, lo sport viene considerato un diritto umano fondamentale, indissolubilmente legato ai diritti inviolabili – come quello alla salute, alla non discriminazione, alle pari opportunità e all’educazione – al centro della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.

Infatti, come ha raccontato Stelitano a Il Bo Live, le Nazioni Unite e il CIO condividono lo stesso apparato valoriale di riferimento, basato sulla centralità della persona e della sua dignità. “Questo sistema di valori è in linea con quello promosso da de Coubertin quasi 150 anni fa, secondo il quale l’obiettivo dei giochi olimpici e del CIO non si esauriva nell’organizzazione di un festival quadriennale dello sport, ma doveva puntare a migliorare il mondo, rendendolo più pacifico”. De Coubertin aveva infatti in mente un grande progetto pedagogico basato sull’educazione allo sport di bambini e bambine, ragazzi e ragazze. La speranza era che, diffondendo la cultura sportiva a livello globale, una persona alla volta, si sarebbe gradualmente formata una società composta da individui in grado di rispettarsi reciprocamente, agire in maniera corretta e impegnarsi per raggiungere obiettivi comuni, estendendo perciò il modello di comportamento sul campo di gara a tutti gli altri contesti della vita sociale. Come ricorda la scrittrice, l’intera storia del Comitato Olimpico internazionale si fonda su questa concezione utopistica basata sulla volontà di perseguire la pace e promuovere la crescita personale di tutti gli individui.

Stelitano racconta nel libro come lo sport venga considerato dalle Nazioni Unite e dal Comitato Olimpico Internazionale come uno strumento in grado di promuovere non solo la cosiddetta “pace negativa”, cioè la mera astensione dall’entrata in guerra. La cultura sportiva è anche fondamentale per la costruzione di una “pace positiva”, espressione utilizzata per definire un impegno attivo, volontario, finalizzato alla costruzione e al mantenimento di rapporti pacifici tra diversi paesi, popoli e comunità.

“La pace negativa è un fermo bellico, ha una durata prestabilita e non è altro che una tregua limitata nel tempo e nello spazio”, spiega l’autrice. “La pace positiva, invece, rappresenta un progetto da seminare e coltivare continuamente. Si tratta di un processo attraverso il quale si cerca di eliminare uno alla volta tutti i motivi di contrasto e di diseguaglianza che possono sfociare in eventuali conflitti.

Lo sport è un’attività universale, che non ha bisogno di traduzione (pensiamo, banalmente, che anche senza ascoltare i commenti tecnici, saremmo comunque in grado di seguire e apprezzare le gare olimpiche alla televisione). Si tratta di una forma di linguaggio in grado di abbattere i confini, promuovere il dialogo interculturale e favorire l’incontro tra persone”.

Questo nucleo di valori, come sottolinea l’autrice, è riassumibile nel concetto di fair play, espressione utilizzata in gergo tecnico per definire un comportamento “sportivo” in senso lato, eticamente corretto dentro e fuori dal campo da gioco. In questo senso, il lavoro condotto dagli enti internazionali, dalle associazioni sportive e dai singoli atleti, che di fatto consente lo svolgimento delle gare olimpiche, è anche un percorso di pace basato sul riconoscimento nell’altro dei tratti di quell’umanità che ci rende tutti simili.

Una parte centrale dell’opera è dedicata al concetto di tregua olimpica sul quale, secondo l’autrice, persiste una certa confusione da parte dell’opinione pubblica.

“Dobbiamo sempre ricordare che Il CIO esercita una giurisdizione sportiva sui comitati olimpici nazionali, non sugli stati”, sottolinea. “In altre parole, detta le regole che devono seguire le associazioni sportive (e non i governi, ndr).

Dopo i grandi boicottaggi degli anni Settanta e Ottanta alle olimpiadi di Montreal, Mosca e Los Angeles (approfonditi nell’opera, ndr) il CIO decise di instaurare una storica alleanza con le Nazioni Unite, che rappresentava un potere superiore in grado di difendere e proteggere i valori dell’olimpismo.

La storia dei rapporti tra i due enti si è evoluta con il passare del tempo. Un momento significativo di questa vicenda è avvenuto nell’ottobre del 1993, quando le Nazioni Unite hanno lanciato la prima tregua Olimpica. Si trattava di un appello rivolto alla comunità degli stati membri, i quali erano invitati a sospendere le ostilità nel periodo di tempo che andava dalla settimana precedente all’inizio dei giochi, fino a quella successiva alla loro conclusione”.

Tale istituzione si ispira alla tregua olimpica nell’antica Grecia, che consisteva in una sorta di salvacondotto per gli atleti che si dirigevano a Olimpia, i quali potevano transitare indenni nelle zone di conflitto. Ciononostante, le risoluzioni per la tregua olimpica adottate dall’Assemblea generale da trent’anni a questa parte non mirano solo ad appianare le asperità per un periodo di tempo limitato, ma invitano gli enti nazionali e internazionali a intraprendere azioni concrete per aprire corridoi umanitari nelle aree di guerra e stabilire tavoli diplomatici finalizzati al raggiungimento di una pace duratura.

“Le risoluzioni sulla tregua olimpica sono quelle che ottengono in media il più alto numero di consensi da parte dei paesi membri”, prosegue Stelitano. “Si tratta di un dato significativo che mostra come il progetto di pace in questione riesca a ottenere un certo successo all’interno del sistema delle Nazioni Unite.

La tregua olimpica, comunque, non è solo un appello al cessate il fuoco in corrispondenza ai giochi, ma si basa su un complesso lavoro svolto anche negli anni in cui non si svolgono le olimpiadi per aumentare la sensibilità verso lo sport, diffondere una cultura di pace e incentivare la truce building (letteralmente: costruzione della tregua, ndr). Tra le diverse iniziative di truce building ricordiamo, ad esempio, la costituzione del Refugee Olympic Team, che dalle olimpiadi di Rio del 2016 fa sfilare sotto un’unica bandiera atleti rifugiati provenienti da diverse parti del mondo”. Si tratta di un’azione concreta, in linea con i valori dell’olimpismo, secondo i quali è fondamentale la tutela del diritto allo sport per tutti e tutte, a prescindere dalla provenienza, dallo status sociale e dalle condizioni economiche.

“In questi giorni sono diverse le critiche mosse al Comitato olimpico da parte di chi denuncia ogni decisione che non segue esattamente le direttive contenute nella Carta olimpica”, continua Stelitano. “Io credo che, come in ogni attività umana, la perfezione non esista. D’altro canto, lo stesso de Coubertin sosteneva che il Comitato Olimpico dovesse essere un camaleonte in grado di sapersi adattare. Esorto perciò a giudicare il lavoro svolto dal Comitato olimpico sul lungo periodo, senza soffermarsi solo sui singoli episodi. D’altronde, se questa organizzazione non governativa è la più longeva al mondo dopo la Croce Rossa Internazionale, un motivo ci sarà.

Lo sport non ha il compito di cambiare il mondo, non è una sua responsabilità”. Praticarlo, però, può portarci più vicini a questo traguardo. Lo sport, sostiene l’autrice, ci insegna a sognare che l’impossibile diventi possibile; può ispirarci, dunque, a non arrenderci nel tentativo di realizzare l’utopia della tregua, della pace e dell’abbattimento delle diseguaglianze.

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