SOCIETÀ

Il rebus Turchia

Capita sempre più spesso che la Turchia conquisti le prime pagine dei maggiori media mondiali. Un’economia in crescita da anni e un ruolo da protagonista nelle maggiori crisi internazionali, ma anche vicende come la dura repressione delle manifestazioni di piazza Taksim lo scorso anno o la recentissima ondata di arresti contro giornalisti di stampa e televisione vicini all'opposizione hanno contribuito ad attirare l’attenzione su un paese che da fedele alleato occidentale sembra ora voler cercare una propria identità distinta. 

Vanno in questa direzione la crescente autonomia con cui il Paese sta agendo nell'area mediorientale e nelle crisi siriana e irachena, ma anche i colloqui e possibili accordi con Russia e Cina. Come capitato tante volte in passato, la Turchia ricopre un ruolo strategico – anche geograficamente - nei più importanti conflitti: cruciale il suo ruolo nella lotta all’Is, negli sviluppi della questione palestinese, nelle forniture di gas da oriente a occidente. Dall’inizio della guerra civile siriana oltre un milione e mezzo di rifugiati si sono riversati nelle zone al confine con la Turchia e l’instaurazione dell'autoproclamato califfato islamico nel nord dell’Iraq e della Siria ha riproposto ancora una volta l'intricatissima e scottante questione curda. 

Ma a polarizzare l’attenzione degli osservatori stranieri è la figura di Recep Tayyip Erdoğan, già tre volte primo ministro e dallo scorso agosto presidente della Repubblica. Il leader del partito religioso conservatore AKP (Partito per la giustizia e lo sviluppo) domina la politica turca da oltre 11 anni e divide l’opinione pubblica interna in ammiratori e oppositori. Mezze misure non sembrano ammesse. Considerato il principale artefice dell’impetuosa crescita economica del paese, Erdogan è frequentemente criticato dai media occidentali sia per il processo di islamizzazione che sta imponendo al paese che per una serie di dichiarazioni e azioni che sembrano fatte apposta per attirare una copertura mediatica negativa da parte dei media occidentali. 

Dall’inaugurazione dello sfavillante e costosissimo nuovo palazzo presidenziale, definito da alcuni come una specie di piccola Versailles, alle controverse dichiarazioni sull’America “scoperta dai musulmani”, fino alla dichiarazione che “le donne non possono essere considerate uguali agli uomini”, alle misure contro i social media o alla messa sotto controllo della magistratura da parte del governo, Erdogan è stato unanimemente criticato dai media occidentali, con commenti che si sono spinti fino a definirlo un dittatore o un fondamentalista islamico. Del Paese si è occupata anche l'organizzazione internazionale Human Right Watch con un rapporto non lusinghiero diffuso a settembre 2014. 

L’idea prevalente è che Erdogan stia portando il paese lontano da quella repubblica laica che il fondatore della Turchia moderna, Kemal Atatürk, ha creato quasi un secolo fa. E prova ne sarebbero anche alcuni provvedimenti legislativi altamente simbolici di islamizzazione della società, come la caduta del divieto di frequentare le università e di lavorare negli uffici pubblici con il velo, le limitazioni sempre maggiori alla vendita di alcolici o la proposta di una riforma in senso fortissimamente restrittivo della legge sull'aborto.

Secondo Ali Caksu, docente di Scienza politica all’International University of Sarajevo ed esperto di politica turca, le critiche occidentali a Erdogan sono cominciate non più di tre-quattro anni fa, quando l’attuale presidente ha cominciato a smarcare la Turchia dalla tradizionale alleanza occidentale e a porsi in modo sempre più indipendente sulle questioni internazionali. Si tratterebbe quindi di una reazione, fatta in gran parte di pregiudizi e stereotipi, da parte dei media e del mondo politico occidentali che non riconoscono più nella Turchia di Erdogan quel fedele membro della Nato che fu in passato. Gli stessi eventi di Piazza Taksim e di Gezi Park sono stati, a suo parere, ingigantiti dalla stampa occidentale, così come le paure di una riduzione della libertà d’espressione. Non va infatti dimenticato come tutt’ora l’esercito sia considerato come il garante massimo della laicità dello stato e ogni mossa sovversiva di Erdogan vedrebbe certamente l’azione diretta dei militari. 

Secondo Caksu, le tendenze autocratiche di Erdogan sono innegabili ma è scorretto definirlo un dittatore e molte delle sue dichiarazioni più controverse sono studiate ad arte per definire l’agenda politica e mediatica. Erdogan è un politico di razza, molto intelligente, spesso sottovalutato dagli osservatori internazionali. Nel suo lungo e ininterrotto decennio di potere è sempre stato molto abile a “giocare” con i mass media. Quando un’errata operazione militare causò la morte di oltre un centinaio di civili curdi, Erdogan riuscì a catalizzare l’attenzione dell'opinione pubblica su alcune sue controverse dichiarazioni anti-aborto, create apposta per sviare altrove l’attenzione giornalistica. 

Non va poi dimenticato come nel 2015 si rinnoverà il parlamento e che la campagna elettorale è praticamente già cominciata. Erdogan in questi casi ha sempre adottato strategie atte a polarizzare l’elettorato, e molte delle sue uscite pubbliche servono proprio a compattare i suoi sostenitori e a identificare con chiarezza gli avversari politici. Strategia fin qui vincente, se guardiamo alle quattro elezioni consecutive vinte – tre da candidato premier, una presidenziale. 

Questa polarizzazione si riflette anche sull’arena mediatica stessa, dove è praticamente impossibile trovare fonti neutrali: tutti i mass media sono convintamente pro o contro il presidente. È vero che Erdogan è un musulmano devoto e sta spostando il paese verso una più forte influenza della dimensione religiosa sulla vita quotidiana. E sebbene questa idea non sia – secondo i sondaggi - condivisa dalla maggioranza dei cittadini, gli viene in qualche modo perdonata grazie agli straordinari risultati economici che il paese sta realizzando e che stanno portando prosperità e arricchimento a una parte considerevole della società.

In tutto questo il processo di avvicinamento della Turchia all’Unione europea è ancora in essere ma è di fatto, secondo Caksu, su un binario morto. Le lunghe trattative protrattesi in passato sono state perlopiù caratterizzate da diffidenza reciproca: da una parte i timori europei per l’integrazione di un enorme paese musulmano, dall’altra i dubbi turchi sui vantaggi di un ingresso in un’organizzazione sovranazionale caratterizzata da rilevanti problemi economici e fortemente vincolante. 

I negoziati degli anni scorsi hanno portato la Turchia a essere parzialmente “europea” in termini di istruzione e scambi commerciali (in alcuni accordi di scambio il paese è inserito al pari degli stati membri), ma hanno per esempio lasciato il paese in una situazione di grande difficoltà per quel che riguarda la libera circolazione delle persone. L’apparente banalità rappresentata dal dover richiedere un visto ogni qualvolta un cittadino turco viaggia verso un paese europeo non ha fatto altro che accrescere l’insofferenza dell’opinione pubblica turca verso l’Ue. Il governo pare ora quindi sempre più orientato a cercare nuovi partner commerciali e strategici e l’attenzione e i colloqui sono diretti sempre più spesso verso Russia e Cina.

Marco Morini

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