UNIVERSITÀ E SCUOLA

Imparare facendo

Dovremmo essere la società della conoscenza, in realtà siamo solo la società delle informazioni. Non è una differenza da poco: abbiamo un ricchissimo buffet informativo a portata di mouse ma ci manca la capacità di analisi critica e la possibilità di costruire un giudizio autonomo, indispensabili per farne un uso proficuo. Questo paradosso è ancora più evidente quando si fa riferimento alla didattica universitaria, che dovrebbe essere deputata proprio alla formazione di quella capacità critica di cui la nostra società ha estremo bisogno.

Uso il condizionale perché la didattica, purtroppo, resta fortemente ancorata al paradigma del trasferimento delle informazioni tra docente e discenti. Problema che si è, forse, ancora più aggravato con la riforma dei cicli universitari (il famoso 3+2) che si è tradotta in corsi sempre più compressi nei tempi e nei contenuti con conseguente riduzione degli spazi dedicati alla riflessione e al confronto.

È bene precisare che questo non è un dibattito solo italiano. Negli Stati Uniti ha suscitato grandi polemiche l’articolo provocatorio scritto recentemente da Andrew Hacker per il New York Times sulla necessità di continuare a insegnare l’algebra. Secondo l’autore non è obbligatorio affliggere tutti gli studenti dalle scuole medie in avanti con una simile tortura. Sarebbe più utile insegnare la matematica in modo differenziato a seconda dei percorsi di studi e soprattutto in modo completamente diverso, invitando gli studenti non tanto a mandare a memoria delle formule ma a riflettere, applicandole alla realtà, sul senso degli strumenti che stanno utilizzando. Un ragionamento simile per il mondo dell’arte l’ha proposto la critica Camille Paglia sulle colonne del Wall Street Journal. Per insegnare davvero che cos’è l’arte, questa è la tesi della Paglia, dovremmo smettere di infarcire le teste degli studenti con nozioni teoriche e mandarli anzitutto a sporcarsi le mani con i maestri artigiani (carpentieri, falegnami, orafi, ecc.) il cui sapere è alla base della produzione artistica. Dale Dougherty, fondatore della rivista Make, pone una questione simile analizzando i test a cui gli studenti americani si devono sottoporre ogni anno (in Italia abbiamo da poco cominciato questo processo con i test INVALSI) e dove, tra le tante domande, resta colpito da una domanda sul microscopio. Non ha molto senso, secondo Dougherty, chiedere in astratto agli studenti di quali elementi è composto e come si usa un microscopio, senza che ne abbiano mai visto uno. Meglio sarebbe, se vogliamo un vero apprendimento, fare in modo che gli studenti utilizzino in prima persona il microscopio per osservare il mondo che li circonda.

Quali indicazioni potremmo trarne per la didattica universitaria? Potremmo trasformare i nostri corsi universitari da somma di lezioni ex-cathedra a laboratori nei quali coinvolgere attivamente gli studenti nella risoluzione di problemi reali. I nostri corsi sono impostati per dare soluzioni semplificando la complessità. Proviamo a fare il contrario, partiamo dai problemi e aiutiamo gli studenti a dare delle risposte mettendo a frutto la loro creatività e autonomia. Per quel che vale negli ultimi anni ho impostato in questo modo i miei corsi di marketing a Scienze della comunicazione. Gli studenti hanno risposto mettendosi in gioco e lavorando molto intensamente. E sono perfino tornati nelle biblioteche per cercare informazioni utili alla risoluzione del problema che avevano di fronte.

Sembra relativamente facile: perché non accade più spesso? La sensazione è che questo “metodo di lavoro” sia molto più diffuso di quanto sia possibile sospettare. Parlando con colleghi mi sono accorto che queste esperienze esistono ma stentano a emergere e a essere riconosciute come tali. La sfida è quella di rendere più sistematico e maggiormente visibile questo nuovo modo di pensare la didattica.

Marco Bettiol

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