SCIENZA E RICERCA

L’antibiotico o una buona tisana?

Facendo zapping in questi giorni vi capiterà di incrociare lo spot promosso dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) per un corretto uso degli antibiotici. Una campagna di comunicazione che sarà declinata su tutti i media. Un’azione strettamente correlata al problema, in aumento, delle resistenze a questo tipo di medicinale che anche un utilizzo eccessivo o inappropriato può causare. Lo sviluppo di resistenze è infatti un normale processo evolutivo dei microrganismi che tuttavia può essere accelerato dalla “pressione selettiva” dovuta a un impiego esteso di farmaci antibatterici. 

Il recente rapporto dell’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc), Antimicrobial resistance surveillance in Europe 2013, sottolinea infatti come la resistenza agli antibiotici sia una seria minaccia per la salute pubblica in Europa che porta a un aumento nei costi di assistenza sanitaria, a ricoveri ospedalieri prolungati, al fallimento delle terapie. Oltre al rischio, messo in evidenza anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, di tornare a un’era pre-antibiotica in cui infezioni comuni possono risultare anche letali.  

La situazione europea mostra una larga variabilità a seconda del tipo di batterio, del gruppo di farmaci antimicrobici considerati e dell’area geografica. In generale, tuttavia, sono state riscontrate percentuali più basse di resistenza agli antibiotici nel nord Europa e più alte invece nei Paesi del sud-est europeo, Italia compresa. Ciò che sottolinea lo studio dell’Ecdc è in particolare un continuo aumento della resistenza ad alcuni tipi di antibiotici da parte di due specie di batteri, Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae, responsabili di infezioni urinarie, intestinali e respiratorie, sepsi e infezioni ospedaliere. In particolare si è constatato un aumento nella resistenza a sostanze antibiotiche come le cefalosporine di terza generazione, i fluorochinoloni e gli aminoglicosidi cui negli ultimi anni si è aggiunta quella ai carbapenemi, antibiotici di ultima linea utilizzati quando altri non danno effetti positivi. In questo contesto, sia l’Istituto superiore di sanità (Iss) che l’Aifa sottolineano le responsabilità dell’Italia. Il nostro Paese è infatti nel gruppo di quelli con i livelli più alti di resistenza nella maggior parte delle specie patogene sotto sorveglianza. E tra quelli in Europa dove è più elevato l’uso di antibiotici, come rilevava già nel 2009 un rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali (OsMed).   

Nell’uso dei farmaci antibatterici, le abitudini sbagliate nascono innanzitutto tra le mura domestiche. Non è così infrequente approfittare di scatole di antibiotici parzialmente utilizzate magari in presenza di febbre. In molti casi senza sapere che sulla febbre, se di origine virale, il farmaco non sortisce alcun effetto. E senza considerare, specie in caso di utilizzo frequente, i possibili effetti negativi sulla flora batterica intestinale, tanto importante per la salute umana, che possono aumentare il rischio di infezioni.  “Questo atteggiamento – spiega Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di Medicina generale e delle cure primarie (Simg) – è una delle cause dell’uso incongruo di antibiotici, che fa parte di consuetudini diffuse e di una mentalità consolidata tra le persone comuni”. 

Poi ci sono i medici. Uno studio condotto negli Stati Uniti e pubblicato qualche mese fa su The Journal of American Medical Association fornisce qualche dato indicativo. Sottolinea come nel periodo compreso tra il 1980 e il 1999 il tasso di prescrizione di antibiotici in caso di bronchite acuta fosse tra il 60 e l’80%, nonostante negli ultimi 40 anni sia stato dimostrato che gli antibiotici non sortiscono alcun effetto nella cura di questa patologia. Una situazione che non è cambiata tra il 1996 e il 2010, osservano Michael L. Barnett e Jeffrey A. Linder, se si considera che in questo periodo gli antibiotici furono prescritti nel 71% dei casi (su 3.153 visite). Certo, solo un esempio che apre tuttavia alle riflessioni.

Stando all’indagine dell’Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali pubblicata a luglio, L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto nazionale anno 2013, sono proprio le infezioni acute delle vie respiratorie le circostanze in cui si tende più frequentemente a usare in modo inappropriato l’antibiotico, sebbene in più dell’80% dei casi queste siano di origine virale e dunque il farmaco non sia indicato. Dunque, se avete un’influenza o una faringite o tonsillite acuta non pretendete l’antibiotico. Un uso frequentemente non corretto è stato rilevato anche in presenza di infezioni acute non complicate delle vie urinarie. 

“La medicina generale – si legge nello studio – è artefice di circa l’80-90% dell’utilizzo degli antibiotici e costituisce pertanto il punto focale per il monitoraggio del consumo di questa classe di farmaci , nonché il punto su cui è importante agire per migliorarne l’appropriatezza prescrittiva”. Lo stesso Cricelli sottolinea come l’uso inappropriato dei farmaci sia in parte dovuto anche a comportamenti “difensivi” dei medici che tendono a cautelarsi e a ritenere che un uso massiccio degli antibiotici possa essere d’aiuto nell’impedire le complicanze. “L’approccio deriva da una visione arcaica dell’antibiotico come strumento terapeutico capace di combattere qualunque forma di malattia infettiva”. Tuttavia un impiego non completamente giustificato o di tipo prevalentemente difensivo può generare anche un effetto collaterale che è l’emergere delle resistenze agli antibiotici. 

Ciò che è necessario è fare formazione, in due direzioni. “Da un lato – puntualizza Cricelli – si deve insegnare sempre meglio ai medici l’appropriatezza del prescrivere, la precisione diagnostica. Dall’altro si deve informare il paziente per indurlo, ad esempio, a non usare antibiotici di cui è in possesso o a non esercitare pressioni sul medico per la prescrizione dell’antibiotico”.  

Ma c’è anche dell’altro che ha a che fare con l’educazione continua in medicina. Se infatti il percorso formativo triennale che i neo-dottori devono frequentare per poter esercitare come medici di base (per il Veneto la Scuola di formazione specifica in medicina generale) è adeguato ed esaustivo, a detta di Cricelli, l’aggiornamento professionale non è altrettanto strutturato. Dopo che il medico è entrato a far parte del sistema sanitario nazionale deve continuare ad avere un adeguamento delle proprie conoscenze. E la cosa è più problematica perché non esiste un percorso sistematico. “Non sta scritto da nessuna parte – argomenta il presidente Simg – che nel corso della sua carriera professionale il medico di base riceverà informazioni e aggiornamenti su argomenti e cure che già conosce, come nel caso dell’antibioticoterapia, quando invece sarebbe sufficiente richiamare alcuni principi di base, ribadire concetti che magari si tende a dimenticare o a cui si può prestare meno attenzione”.  Ciò perché la formazione si concentra soprattutto sulle aree tematiche nuove, sui nuovi farmaci. A questo scopo ad esempio risponde la prima Scuola di alta formazione del farmaco, proprio nell’ambito dell’educazione continua in medicina, istituita di recente dalla Simg, che inizierà il prossimo dicembre. Ciò in seguito alla decisione dell’Agenzia italiana del farmaco di selezionare 2.000 medici di base che potranno prescrivere farmaci innovativi sottoposti a piano terapeutico finora appannaggio degli specialisti.

Cricelli conclude con un’osservazione. I risultati positivi nel settore della salute si ottengono quando tutte le parti in causa, e nello specifico cittadini, medici e sistema sanitario, dialogano fra loro e fanno proprio lo stesso obiettivo, senza addossare le responsabilità agli altri. “Ciò che è necessario è una alleanza terapeutica tra tutti gli attori in gioco”. 

Monica Panetto

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