SOCIETÀ
La Groenlandia ridiventa verde?
Dall'anno appena trascorso l’Italia è nel Consiglio artico come osservatore permanente. Ed è in buona compagnia: da maggio a preoccuparsi delle sorti della calotta polare e del destino delle popolazioni indigene sono anche India, Giappone, Corea del Sud, Singapore e, soprattutto, Cina. Questi osservatori affiancano gli otto stati membri (Canada, Finlandia, Danimarca, Islanda, Norvegia, Svezia, Russia e Stati Uniti) e altre sei nazioni non artiche, oltre a diverse organizzazioni interparlamentari e non governative. La corsa alla conquista di uno scranno nella sede di un organo deputato a salvaguardare l’ambiente marino polare e la sicurezza degli abitanti dei ghiacci si giustifica con la nuova rotta, molto più politica, assunta dal consiglio in virtù delle nuove prospettive economiche di cui sono protagonisti i territori del nord più estremo, in primo luogo la Groenlandia.
Infatti le teorie del riscaldamento globale, solitamente fonte di scenari catastrofici, al nord sono accolte con entusiasmo, trasformandosi in un’opportunità senza precedenti per affrancarsi dai legami con la Danimarca, dalla quale l’isola artica dipende. Nonostante infatti dal 2009 viga una convenzione che conferisce alla Groenlandia una status di semi-indipendenza, che attribuisce alla Danimarca la competenza esclusiva solo su affari esteri e difesa, lasciando ai territori groenlandesi completa autonomia nelle questioni domestiche, in realtà la Groenlandia in termini economici dipende ancora, e pesantemente, dal piccolo stato europeo. Il cambiamento climatico diventa oggi la leva per rivendicazioni indipendentiste sempre più forti, grazie alla crescente speranza di poter finalmente sfruttare le proprie ricchezze minerarie e la propria crescente rilevanza strategica: la previsione di un importante scioglimento dei ghiacci, infatti, apre prospettive enormi sia in campo estrattivo, che in quello dei trasporti.
La riscoperta dell’Artico da parte del resto del mondo promette un innalzamento economico e sociale a un territorio enorme (più di 2 milioni di chilometri quadrati) abitato a malapena da 56.000 abitanti, 16.000 dei quali concentrati nella capitale, Nuuk. Circa l’80% per cento della sua superficie è ricoperto di ghiaccio, e fra i piccoli insediamenti residui quasi non esistono connessioni stradali, soprattutto al nord. Anche viaggiare in aereo è difficoltoso, a causa delle condizioni estreme che minano la sicurezza dei velivoli. Ma negli ultimi anni le temperature artiche si sono innalzate ad una velocità doppia rispetto a qualsiasi altro luogo, e la regione polare ha perso circa i tre quarti del ghiaccio marino; su queste basi, le previsioni future prevedono l’apertura di nuovi passaggi marini navigabili fra Asia ed Europa, e fra il Pacifico e l’Atlantico.
Le nuove rotte artiche risulterebbero molto competitive rispetto al tradizionale passaggio per Suez, creando canali più veloci ed economici per i trasporti marittimi. A questo s’aggiunga che il ritiro dei ghiacci consentirebbe di sfruttare finalmente i giacimenti minerari per ora inutilizzabili. Nel frattempo il parlamento ha rivisto il proprio divieto all’estrazione dell’uranio, in risposta alle difficoltà economiche e ai riconosciuti interessi degli investitori stranieri.
Sono molte le nazioni, infatti, che fanno la fila per mettere mano sui giacimenti di oro, argento, platino, palladio, zinco, ferro, rame, nascosti in zone inaccessibili del paese. Si stima inoltre che le terre artiche conservino circa il 13% del petrolio e il 30% del gas non ancora estratti. La probabilità potrebbe trasformarsi in certezza grazie ai risultati di indagini diffuse, che però richiedono tempo. A questo proposito, il ministro groenlandese alle attività minerarie ha ammesso: “Sappiamo che sono lì, ma non sappiamo esattamente dove”.
Nonostante ci siano molti luoghi nel mondo con risorse ancora inesplorate,la Groenlandia rimane un territorio strategicamente importante e alla portata di investimenti internazionali, non esclusivi delle potenze artiche come Russia, Stati Uniti e Canada. Entra in gioco anche la Cina, da qualche tempo autodefinitasi “nazione vicina all’Artico”, nonostante il suo punto più prossimo ai ghiacci sia a circa 1.600 chilometri. È già una realtà l’accordo con il quale la London Mining britannica si è messa a capo di un consorzio a capitale cinese per aprire una miniera di ferro 100 miglia a nord di Nuuk: il consorzio ha ottenuto quest’anno l’esclusiva per 30 anni di esplorazioni per terreni che potrebbe valere 2 miliardi all’anno di dollari. E se le indagini si rivelassero positive, 3.000 lavoratori asiatici sarebbero impiegati in un progetto che porterebbe 15 milioni di tonnellate di ferro a Pechino. Senza contare che a lavorare nell’isola artica sono già 2.000 cinesi, per una forza lavoro complessiva di 30.000 unità.
Ma per ora la Groenlandia non è una terra così verde come indicherebbe il nome, e il riscaldamento globale rimane un processo che, malgrado l’accelerazione degli ultimi anni, richiederà decenni per influire in modo consistente sul territorio artico. Nel frattempo, però, la corsa alla sua conquista è partita.
Chiara Mezzalira