UNIVERSITÀ E SCUOLA

La monotonia del posto fisso non abita qui

È passata una settimana. Ma sulle manifestazioni legate allo sciopero europeo del 14 novembre indetto dall’European Trade Union Confederation, con decine di migliaia di persone scese in piazza in tutta Italia e alcuni milioni complessivamente in Europa, non si è ancora spento il clamore degli episodi di violenza, con le denunce incrociate di manifestanti e forze dell’ordine. 

Il fumo dei lacrimogeni e i ‘book block’, gli studenti no global che oppongono dei libri-scudo alle cariche della celere, hanno invaso le cronache e finito per appiattire i contenuti di quello che per molti è l’inizio un movimento multiforme. Il grosso della partecipazione è dato da studenti e persone qualunque: protestano contro le misure di austerità e i tagli alla spesa pubblica. Con grande trasversalità, rispetto ai gruppi e ai movimenti politici, uno degli effetti dell’austerity arrivata a permeare ogni settore della vita sociale del Paese e a raggiungere tutti, o quasi.

Chiara De Notaris, studentessa di scienze naturali e rappresentante degli studenti, ha sfilato in corteo: “Ero in manifestazione e sfilavamo con il nostro corteo vicino ai no global: sono state scritte tante cose non vere sulla partecipazione e sulle violenze preordinate. Avevamo solo le 'carote' – per ricordare al ministro Profumo le poche risorse che il governo mette a disposizione della scuola in epoca di tagli – e le stelle dell’Europa. Non quella finanziaria, ma del diritto allo studio, del welfare, della mobilità tra i Paesi”. 

“Tutto viene banalizzato dalla violenza e una bomba carta è sufficiente a farti passare dalla parte del torto davanti all’opinione pubblica”, avverte Gioia Baggio, al secondo anno di lettere. “Passando vicino alla manifestazione ho sentito qualcuno che commentava ‘Non cambia niente’. Forse è il momento di ripartire dal basso, ricostruendo le comunità, anche nei piccoli paesi. Parlarsi e stare assieme per discutere, prima di scendere in piazza, costruire una rete di contatti molto forte e organizzata. Mi sembra l’unico strumento di crescita culturale che può cambiare davvero qualcosa”. 

Modi diversi di intendere la partecipazione pubblica che nascono nel silenzio della politica. C’è anche chi definisce “sbagliata la manifestazione come strumento di espressione politica”. A farlo senza mezzi termini è Gianluca Conzon, membro del consiglio di amministrazione e studente di statistica. “Semplicemente non serve, però trovo positivo il desiderio di cambiamento. Ma bisogna sfruttare tutte le possibilità che si hanno di cambiare le cose dall’interno”. Anche chiedendo alla politica di andare a votare con una legge elettorale che permetta di scegliere i candidati? “Sì. Questo è soprattutto il momento di premiare il merito”.

Per Gianluca Pozza, rappresentante dei dottorandi, “l’attenzione posta sulla violenza di alcuni manifestanti serve solo a sviare l’attenzione. Certo a Roma c’è stato il tentativo di forzare i percorsi autorizzati della manifestazione, ma quello che è risultato evidente è la volontà repressiva della polizia. Ora l’obiettivo è quello di allargare la base di questo movimento di protesta, la cui consapevolezza dei problemi valica i confini nazionali”. Pozza tocca il problema del rapporto fra componenti organizzate e partecipazione diffusa, di gran lunga maggioritaria, nel movimento, ed esprime la convinzione che “i gruppi d’opinione e d’azione politica che compongono il movimento, di fronte alla sua crescita anche numerica, non possano far altro che seguirlo”. Un’evoluzione delle cose che non può prescindere dalla “condivisione di regole democratiche e dalle garanzie fornite dalle rappresentanze istituzionali”. Anche per mantenere il punto di forza e di equilibrio del movimento: la sua pluralità. 

Allargare il movimento. Parola d’ordine che rilancia anche Sebastian Kohlscheen, portavoce del centro sociale Pedro, per il quale “deve nascere un movimento di protesta europeo, in grado di fare una vera pressione sui governi che propongono solo ricette lacrime e sangue”. I disobbedienti non manifestano contrarietà alle scelte di protesta più ‘istituzionali’, come quella della stessa Cgil che ha organizzato lo sciopero generale in Italia. Ma rivendicano la propria posizione: “la necessità di azioni effettuate con maggiore determinazione e forza, se necessario. Un modo per mandare in blocco il sistema attuale”. 

A rispondere è Marco Zabai, studente di giurisprudenza e rappresentante in senato accademico: “Inserire nell’appello delle manifestazioni il principio della non violenza è fondamentale, per evitare quello che è accaduto lo scorso anno in piazza Navona, quando un corteo pacifico è stato preso in ostaggio dalle frange più estreme della violenza organizzata”, afferma. Ci sarebbe il rischio di annullare il significato della protesta, le cui motivazioni sintetizza così: “Non è accettabile che chi è entrato povero nella crisi, ne esca ancora più povero e chi, al contrario, c’è entrato ricco abbia l’occasione per diventarlo ancora di più”. E lancia alcune proposte: “La patrimoniale risponderebbe a esigenze di equità e solidarietà. Nel caso dell’università si potrebbe invece aumentare la progressività delle tasse sopra un certo livello di reddito, introducendo una no-tax area per i redditi più bassi e passando alla tassazione unica su base nazionale”. 

“Non siate troppo choosy”, acccontentatevi e non fate gli schizzinosi, sentenziava qualche tempo fa il ministro Fornero, rivolgendosi ai giovani. Poi la settimana scorsa è venuto il turno di Monti, ormai dimentico dello scivolone in una delle sue prime esternazioni, “che monotonia il posto fisso!”. All’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, il primo ministro ha il pregio della chiarezza e scomoda una citazione dal gusto vagamente kennediano: “'Le nuove generazioni diano alla società italiana anche più di quello che le dissipazioni del passato consentono all'Italia di dare a loro”. Ha corretto il tiro, ma non più di tanto, se si guarda al contesto in cui agiscono  le sue parole. L’Istat ha infatti registrato in settembre un tasso di disoccupazione giovanile pari al 35,1%. 

D’altronde se si tratta di un invito a rimboccarsi le maniche ha qualcosa di superfluo, essendo già stato ‘metabolizzato‘ da tempo dai veri giovani, quelli nella fascia d’età 15-24 anni, e anche dai meno giovani (dai 25 ai 35 anni e oltre). Nessun muro contro muro, quindi. 

Gioia - che si aspetta sempre meno dalla politica - sostiene che “bisogna attivarsi individualmente per creare delle occasioni, senza aspettare. Anche sporcandosi le mani con i lavori più umili. E andando, perché no, all’estero”. 

Per Gianluca Conzon “se i problemi sono grandi e di difficile soluzione è il momento di rimettersi in gioco, ogni giorno, ma con realismo e intelligenza. In fondo è questo che significa studiare e ciò autorizza a dire che è arrivato il tempo degli studenti”.

Una voglia di fare costretta a misurarsi con un inserimento nella vita lavorativa difficile, che non permette di esprimere il vero potenziale di ognuno. “Ma non siamo né più disastrosi, né più stupidi di altre generazioni, solo perché non ci sono più soldi”, dice Pietro Grassi, laureato in comunicazione.

Nessuna richiesta di creare posti di lavoro per assorbire i laureati, nessun mito del posto fisso e disponibilità a partire dal basso. “Ma – precisa Chiara – non può essere una strada senza scelta e neppure l’unico orizzonte della vita, perché se dimostro che valgo, ho il diritto di misurarmi con le mie aspirazioni. Affrontando selezioni che non si basino su quanto sono gradito, ma su quello che posso portare”.

Una richiesta di chiarezza, alla politica e alla società, che è assolutamente trasversale e preliminare a ogni altra considerazione. “Dite la verità” è un appello che si risuona a più voci. Certo “Abbiamo il dovere di informarci se vogliamo migliorare il nostro apporto alla collettività” puntualizza Giuseppe Cicchetti, primo anno di economia, “ma le nostre domande non possono essere eluse dall’assenza di un confronto sui temi che ci toccano da vicino, dalla scuola al lavoro”. 

Eppure mentre si sbandiera l’innovazione, uno dei cardini di questo governo tecnico, divenuto slogan anche per tutti i partiti, le porte si chiudono anche per chi vive il primo approccio con il mondo della ricerca. Gianluca Pozza cita alcuni dati: “a livello nazionale, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2012, più di 22.000 precari della ricerca con vari tipi di contratti temporanei (il 60% del totale) sono stati espulsi dal sistema universitario. A Padova il 41% del personale che fa ricerca non è strutturato”. Un imbuto per uscire dal quale ci si aspetterebbe la creazione di percorsi in grado di favorire il passaggio al mondo dell’industria e delle professioni, con tempi certi e prospettive diverse dalla precarietà a tempo indeterminato. 

“Ma se la disoccupazione cresce anche quando il numero dei laureati diminuisce, non è che il nostro contributo in fondo non sia così richiesto?” si domanda ancora Chiara. “Da studentessa di scienze naturali – continua – mi chiedo se non si potrebbe cominciare a guardare in modo diverso all’ambiente, solo per fare un esempio. Se si guarda a quanto è accaduto all’Ilva di Taranto, con tutti i costi in termini sociali e di vite umane… perché non concentrare la nostra crescita anche su queste esigenze, perché non trovare una strada diversa? Perché non rimettere in discussione anche i contenuti del nostro sapere, traendo una lezione da questa crisi e divenendo più critici?” 

Tornando alle difficoltà dell’università da cui siamo partiti in questo nostro forum, Marco precisa: “Non siamo rassegnati e le difficoltà non sono frutto della nostra rinuncia. Ma se i problemi si ereditano, si trascinano da anni fino a diventare problemi di sistema, non possiamo essere gli unici a dovercene fare carico”. 

Strano destino quello della generazione con cui, per la prima volta, tutti solidarizzano ma che nessuno sembra disposto ad ascoltare: tutto deciso, nel presente e per il futuro. Ma la speranza di un’Europa diversa passa proprio da qui. Da loro. In piazza di nuovo il 24 novembre.

Carlo Calore

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