SCIENZA E RICERCA
L'arte autentica del Veronese, 500 anni dopo
Un vecchio col turbante regge un sfera armillare; ai suoi piedi, un mappamondo. Una donna volge lo sguardo verso un putto che stringe una stecca e dell’argilla. Le allegorie di Astronomia e Scultura, due tele che fino a poco tempo fa facevano da sfondo a cerimonie pubbliche e matrimoni nei saloni di Villa san Remigio a Verbania. Inventariate come “copie del Veronese” e molto simili ad altre conservate in musei francesi e americani, erano solo due delle tele comprese nella ricognizione prevista dalla tesi di laurea di Cristina Moro, alla quale si affiancavano il relatore Giovanni Agosti e il correlatore Jacopo Stoffa. Si sta laureando in questi giorni, Cristina, ma le conclusioni del suo studio sono già state presentate il 13 giugno alla National Gallery di Londra, dove si è chiusa la mostra Veronese: Magnificence in Renaissance Venice e si è annunciata quella che si inaugurerà a Verona fra pochi giorni, Il Veneto di Paolo Veronese. Perché la studentessa milanese non ha semplicemente registrato la descrizione d’inventario di quelle due tele “veronesiane”, ma ha intuito che la mano che le aveva create poteva non essere di un semplice garzone di bottega. La consulenza richiesta a uno dei massimo conoscitori delle opere di Paolo Veronese, Vittoria Romani, ha confermato l’intuizione. Docente dell’università di Padova e titolare del progetto di ricerca Giovinezza e maturità di Paolo Veronese, Romani racconta del primo approccio alle due grandi pitture: “Ci siamo soffermati soprattutto sui alcuni dettagli delle tele: entrambe le figure mostrano infatti una tecnica chiaramente attribuibile al Veronese, che non può sfuggire allo studioso attento. Abbiamo subito capito che le probabilità di un’attribuzione autografa era molto alta”.
Si è innescata dunque una collaborazione fra diverse istituzioni, che ha portato alla certezza dell’autografia delle tele, al loro restauro e alla loro prossima esposizione nelle sale del Palladium Museum di Vicenza. Le forze messe in campo dall’università di Padova con Vittoria Romani e il suo gruppo di giovani ricercatori e dottorandi si sono fuse con quelle del consorzio Venaria reale, che sta curando le ultime fasi del restauro, e con la Fondazione Palladio, che organizza la mostra che partirà in contemporanea con quella di Verona, il 5 luglio, e che si prolungherà fino al 5 ottobre.
Paolo Veronese, Allegoria della Scultura e, a destra, Allegoria dell’Astronomia
La probabilità che queste due tele fossero copie era in realtà molto alta. Guido Beltramini, curatore della mostra e direttore della Fondazione Palladio, ci tiene a sottolineare che “il lavoro successivo alla intuizione di Cristina Moro è stato determinante per l’attribuzione. Perché se ora appare evidente, vi assicuro che in un primo momento non era affatto così”. Poiché le copie giunte a noi sono moltissime, le opere in origine dovevano essere esposte a Venezia in un luogo pubblico, o comunque visitabile facilmente. Quelle del Musèe des Beaux-Arts di Chartres, in particolare, mostrano l’appartenenza delle due tele piemontesi a una serie di opere affini che dovevano avere significato nel loro insieme: un ciclo di allegorie dal numero imprecisato. Vi appartengono scuramente due originali oggi compresi nella collezione del Los Angeles County Museum, e che erano stati fortunosamente ritrovati nel mercato antiquario negli anni Settanta. Con queste tele, quelle di Verbania mostrano continuità per il tema allegorico, la presenza nella scena di strumenti di misurazione, l’uso degli elementi architettonici.
Paolo Veronese, Allegoria della Navigazione: Tolomeo, e a destra Allegoria della Navigazione: Averroè – Los Angeles County Museum of Art
Il gruppo di ricerca ha combinato l’analisi stilistica delle opere e la comparazione con gli altri originali della serie con l’analisi storica, che colloca le opere agli inizi degli anni Cinquanta del 1500, forse nel 1553, quando il Veronese cominciò la sua attività a Venezia poco più che ventenne. È lì che conobbe Jacopo Barbaro e, grazie a lui, Andrea Palladio, col quale collaborò per la prima volta a Vicenza a Palazzo Da Porto e qualche anno più tardi nella villa Barbaro a Maser. Facile, dunque, comprendere l’origine di alcuni particolari delle tele, come l’uso delle architetture, il gusto per le rovine, la raffigurazione di strumenti scientifici per la misurazione del cielo e della terra. In sintesi, una celebrazione dell’importanza della matematica e dell'architettura nella cultura veneziana cinquecentesca, con ogni probabilità ispirata dal Barbaro.
Lo studio storico ha verificato l’incastro di tempi e luoghi nell’attività dell’artista, lavorando anche sul confronto con opere coeve, sue e dei suoi riferimenti principali, Michelangelo e Parmigianino. Le analisi chimiche e fisiche hanno dato solo ulteriori conferme: le indagini agli infrarossi hanno svelato elementi architettonici non più visibili che raccontano una storia di ulteriore continuità con le opere conservate a Los Angeles, che rappresentano Tolomeo e Averroè, figure maschili che reggono rispettivamente un astrolabio e una balestriglia. I raggi infrarossi hanno rivelato anche diversi “ripensamenti” dell’autore, di cui uno molto importante – il cambiamento di posizione di un braccio della scultura –, che chiaramente fanno comprendere di non essere in presenza di copie. Analisi non invasive dei pigmenti hanno dato indicazioni sulla colorazione originale che la pulitura ha poi disvelato, mostrando brillanti lapislazzuli e chiari cieli a smaltino.
Nella mostra Quattro Veronese venuti da lontano. Le Allegorie ritrovate, dunque, le due tele piemontesi verranno affiancate per la prima volta assoluta alle due statunitensi, ricreando almeno in parte quella serie che Paolo Veronese aveva ideato. Il Museo di Storia della Fisica dell’università di Padova contribuirà col prestito di due degli strumenti scientifici raffigurati nelle tele: un astrolabio (firmato Renerus Arsenius Nepos Gemme Frisy Faciebat Louany 1566) e una sfera armillare del XVI secolo. A evocare il contesto, la mostra comprenderà due quadri (Paesaggio con montagne e lago e Paesaggio) che Umberto Boccioni dipinse durante un soggiorno nella villa neocinquecentesca di San Remigio, ospite del marchese Silvio della Valle di Casanova e di sua moglie, la pittrice e scultrice Sophie Brown, proprietari della collezione d’arte che comprendeva le tele veronesiane. Quella di Vicenza si annuncia quindi come una mostra piccola piccola, ma ricca di novità.
Chiara Mezzalira