CULTURA

Le vite degli altri. Storie di carcerati, secondini e altri reclusi

Questa è la storia degli altri. Quando qualcuno commette un crimine, ancor più un omicidio, rompe le vite degli altri e non solo la propria. I parenti della vittima, certo, a cui niente e nessuno restituirà i loro cari, e che possono solo sperare in una giustizia adeguata. Ma anche i parenti del colpevole, che si trovano a costruire la loro vita attorno a un’assenza – o forse piuttosto un’ingombrante presenza – senza averlo scelto.

Quando la giustizia funziona, il colpevole viene condannato, e sconterà la sua pena recluso da qualche parte. E per gli altri, i parenti (genitori, figli, coniugi) inizia una lunga vita in una bolla. L’assenza del loro amato da casa – perché spesso in realtà lo amano e continuano ad amarlo – e l’avventura delle visite in carcere, in quella parentesi dalla realtà che è poi una oscura realtà essa stessa. Se poi l’amato è un pluriomicida e finisce in un carcere di massima sicurezza, le visite si complicano, così come la difficoltà di capire e accettare quel che l’altro ha fatto e il perché.

Capita così che si ritrovino a far visita ai loro cari segregati in un’isola due persone totalmente diverse tra loro. Luisa viene da un mondo in cui non si pensa, si fa, perché non c’è il tempo per pensare: si devono lavorare i campi, tirare su cinque figli, dar da mangiare alle bestie, mandare avanti una casa. E quando i carabinieri ti mandano a chiamare per capire che tipo è tuo marito, gli spieghi che è onesto e gran lavoratore, ma ometti di dire –perché non sta bene dirlo – che ti ha picchiato per anni e sotto sotto è un sollievo che te lo portino via. Non è un caso che quando non si pensa ma solo si fa, si uccida per rabbia o per pura violenza. Una volta, e poi una seconda.

Nel mondo di Paolo, all’opposto, di tempo per pensare ce n’è anche troppo e c'è anche modo di  educare un figlio che un mondo sbagliato è giusto cambiarlo, salvo poi scoprire che tuo figlio diventa un terrorista e per questo uccide a sangue freddo, fuori e dentro il carcere. E scoprire, da professore di filosofia, che i tuoi studenti migliori, preparati, dotati, la pensano allo stesso modo e ti fanno i complimenti perché hai un figlio così. Tua moglie muore di dolore, i familiari dei detenuti, lamentosi, paiono non capire mai che se questi stanno dentro un motivo c’è, eccome se c’è, e tuo figlio non lo vorresti più vedere. E invece vai a trovarlo, immancabilmente.

Sono gli anni duri del terrorismo, delle bombe, gli anni in cui “un noto politico viene rapito e ucciso” e alla violenza (questa non è rivoluzione, pensa Paolo, è solo violenza) si risponde con la violenza, perché altro non sembra restare. Quando ai processi gli imputati venivano scortati in aula tra due file di poliziotti che avevano l’ordine di voltar loro la schiena e non guardarli in faccia, per evitare tentazioni. Quando gli altri, i parenti degli imputati, non avevano diritto alla pubblica pietà e si indagava a fondo che con ciò che quelli avevano combinato non avessero davvero niente a che fare.

E poi ci sono gli altri, ancora degli altri, i secondini, che stanno in prigione pure loro, anche se il mondo è convinto di no, e delega a loro la gestione di “quelli”. E loro, anche loro, con la violenza si devono difendere, con la violenza vogliono far capire a un detenuto che deve smetterla, che lì dentro non può continuare a far del male a chi è più debole di lui. E poi tra gli altri ci sono le mogli di questi secondini, che in quest’ambiente – figuriamoci in un’isola in cui ci sta solo il carcere – devono crescere i figli e dar loro serenità. Mentre in silenzio hanno paura per i mariti, perché le tracce di sangue sulla divisa le lavano loro.

 

Francesca Melandri, Più alto del mare, Rizzoli 2012

 

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