CULTURA

Sullo scaffale: Baracca e burattini di Dario Buzzolan

Ci sono romanzi che per potenza catartica ricordano le tragedie greche. Che mettono sulla scena le storie dei singoli ma chiamano in causa l’umanità tutta pizzicando le corde più interne che innervano l’anima di ciascuno. Che ci fanno pensare che, per quanto siamo (erroneamente) certi di essere in ogni momento sempre lucidi padroni del nostro destino, per quanto ci illudiamo di poterci sempre determinare nelle nostre azioni, da quelle insignificanti a quelle più complesse fino a quelle esiziali come i matrimoni, i divorzi, decidere se mettere al mondo un figlio o meno, in realtà non è vero: non abbiamo tutta questa libertà.

I romanzi fatti così ci dimostrano la stratificazione delle esistenze, l’impossibilità ontologica di seguire sempre un percorso lineare che da A ci porti a B, se B è dove vogliamo andare o dove siamo certi riposi la nostra meta. Ci calano nella storia – nostra, di altri e del mondo – tracciando silenziosamente, con i fatti cioè e non con le spiegazioni, una ragnatela di connessioni invisibili tra i personaggi che sono, queste sì, responsabili di ciò che accade.

I romanzi potenti agiscono in questo modo.

Eppure, facendo tutto questo, rimangono il racconto di una storia, cioè assolvono pienamente al loro compito primigenio. E all’ultima pagina il lettore riposa, come direbbe il compianto Javier Marías, su una verità che può dare per assodata, traguardo che invece nella vita non si può mai avere la certezza di raggiungere, e prova per questo un senso di pienezza e “ordine”. 

Di questa specie è il nuovo romanzo di Dario Buzzolan, Baracca e burattini, uscito da poco per Mondadori: 386 pagine che volano sotto gli occhi, riempiono di voglia di sapere “cosa succede dopo” ma travolgono di domande di senso cui, come sempre accade, il romanziere giustamente non dà risposta. Perché non c’è una risposta universale ma “solo” quella offerta dallo svolgersi dei fatti e dal procedere delle emozioni.

Buzzolan ci racconta un secolo attraverso la storia della famiglia Bo: Ermes, figlio di Adelfo, nato nel 1925, poi Ranieri quindi i suoi figli, Elle, Ada e Max, giungendo così ai giorni nostri.

La tela delle esistenze e dei destini è intessuta dal racconto di ben sei voci narranti in prima persona (Ermes, sua moglie Emma, quand’è ancora viva e quando di lei non resta che un fantasma, Ranieri, Elle, Ada e Tonino, il primo amore di Elle) e mette sulla scena però almeno altri due personaggi fondamentali: Paolo, il collega anestesista di Ranieri, che è oncologo, Livia, la moglie di Ranieri oltre ad Adelfo, il capostipite, la cui colpa originaria (ma qual è, davvero?) si riverbera, nella migliore tradizione – che sì, affonda le radici nella classicità – sulla famiglia tutta, come in un domino.

Nessuno qui, in questa scacchiera a tratti impazzita, si comporta come chi gli sta “cronologicamente sopra” (e per questo pensa di potere o dover indirizzare chi sta sotto) si aspetta. Ranieri diventa medico contro i desideri del padre Ermes, forse per rattoppare lo strappo che gli ha causato la morte prematura della madre, volendo quindi mettersi nelle condizioni di poterne salvare altre, di vite; Elle vuole fare l’attrice e nella confusione esistenziale non riesce che ad avere un andamento claudicante, proprio come si diceva di Edipo, legandosi intellettualmente a Paolo, il collega del padre, che anziché tirarla fuori dalla droga la asseconda nel suo desiderio di allontanamento dalla realtà: solo per fare i due esempi più eclatanti.

Il leitmotiv che dà il titolo al libro è, infatti, proprio la fuga. Il vizio di sottrarsi. Dal proprio posto nella genealogia, e nel mondo, e dalle proprie responsabilità: quasi tutti i personaggi a un certo punto della loro esistenza “mollano baracca e burattini” e seguono la propria via, convinti che questo non riguardi che loro stessi e così sbagliano.

A partire da quell’Adelfo che lascia moglie e figli per andare in Africa in tempo di guerra (o quasi), giù fino ad Elle, inaffidabile per definizione, passando per Tonino, che dall’essere il suo primo innamorato da un giorno per l’altro non è più accanto a lei (o forse, per volere del padre che lo reputa un poco di buono, è proprio Elle quella che lo “tradisce” con l’abbandono).

C’è in tutto il dipanarsi della storia un rapporto ambiguo con l’invisibile: Ermes in gioventù riceve le visioni e si fa convinto che questo corrisponda a una chiamata dall’alto, che poi disattende per amore di Emma; Ranieri viene accusato di “sentirsi Dio” perché, in anni in cui la questione era lungi dall’essere regolamentata (non che ora lo sia), con l’aiuto del collega anestesista ha facilitato la morte di pazienti terminali – oltre ad aver impedito l’amore tra Elle e Tonino. “Ero certo che fosse la cosa giusta. Se non c’era un dio che provvedesse al male del mondo, dovevano provvedere gli uomini; nella fattispecie, io”.

Ma allora gli uomini non sono forse, a volte, i burattini del titolo? O si comportano come tali?

E la baracca potrebbe alludere a quella casa diroccata sulla spiaggia, la Casa Blu, dove gli eventi dirimenti della famiglia Bo sono tutti accaduti? Una casa che è stata desiderio, sogno, amore, cella monastica, sepolcro?

“Se fossi stato dio” dice Ranieri “avrei fatto ciò che di solito fa qualunque creatore degno di questo nome, cioè con una semplice inspirazione avrei cancellato l’universo esistente, imperfetto, e con la successiva espirazione lo avrei ricreato in una versione emendata, nella quale mio padre Ermes era un buon padre e tutto ciò che era accaduto tra me e lui, in particolare quel giorno, era definitivamente cancellato”.

Allora è vero che le colpe dei padri ricadono sui figli? Oppure è vero anche il contrario?

Hanno peccato d’hybris i personaggi di questa storia e sono stati puniti per questo? Per essersi sottratti e insieme aver cercato d’orientare il corso del destino?

“Papà, come tutti i capri espiatori, portava su di sé silenziosamente un peso: quello delle nostre mancanze e inadeguatezze, che si accollava assieme alla fallace certezza di esserne la causa” dice Ada. “Ormai aveva accettato il nostro grande alibi: siamo venuti male per tua responsabilità. Mentre la verità è che siamo venuti male e basta”.

Ma se questa è una catena, allora non bisogna forse risalire più in alto e non fermarsi a Ranieri? La colpa primigenia è di Ermes? O ancora di Adelfo? O bisogna andare ancora su, più su, più indietro ancora?

Forse non esiste una sola verità. Esiste la vita ed esiste la morte. E ciò che ci sta in mezzo.

“Quante cose si capiscono da lontano” chiosa Ada, ch’è la più saggia, la meno sognatrice, la più capace di tutta la famiglia Bo ad accettare la vita così come viene.

Buzzolan quest’occhio che guarda da lontano lo ha affinato a meraviglia. E con questo romanzo apre anche il nostro sguardo.

Siamo venuti male per tua responsabilità. Mentre la verità è che siamo venuti male e basta Dario Buzzolan

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012