CULTURA

L'Italia ha bisogno di ingegneri quanto di scrittori

Con l’avanzare della crisi (dal greco antico “scelta”, anche se la possibilità di scegliere alcunché, in una condizione del genere, è pura utopia) stiamo assistendo ad una inaspettata rivalutazione degli studi classici. Dopo decenni in cui è s’è combattuto al grido di “aboliamo il liceo classico”, quasi che saper leggere Omero in greco antico escludesse la possibilità di imparare a parlare un inglese fluente, o di capirci qualcosa di meccanica razionale, sui giornali si cominciano ad intravvedere i segnali di un’inversione di tendenza.

L’Italia non ha bisogno di ingegneri ma di uomini titola il suo intervento di qualche giorno fa su Il Sussidiario Giorgio Israel, quasi in risposta ad una Merkel che invece ricerca, tra i giovani ingegneri italiani, le nuove leve del futuro tedesco (formate a spese dell’Italia, è chiaro), allettandole con programmi di incentivi. Non c’è bisogno di incentivo alcuno, purtroppo: la prospettiva di un lavoro è una motivazione sufficiente per partire. Ma come: se la Germania cerca ingegneri, cosa significa dire che noi, invece, abbiamo “bisogno di uomini”?

Prendiamo il caso di Paolo Fazioli, fondatore della Fazioli Pianoforti, una realtà italiana che si contende il primato di eccellenza nella produzione di pianoforti nientemeno che con la Steinway & Sons: una laurea in ingegneria meccanica e il diploma di pianoforte in mano, che oggi vale come una seconda laurea, ha deciso di trasformare l’azienda di famiglia, costruttori di mobili, in una casa produttrice di pianoforti a coda di altissimo livello. Oggi suonano “sul Fazioli” pianisti di classico e di jazz del calibro di Angela Hewitt e Herbie Hancock, solo per citarne un paio.

Paolo Fazioli è un ingegnere? Certo. È un umanista? Risposta affermativa anche in questo caso. La domanda che ha senso farsi è, piuttosto, se abbia reale significato distinguere tra i due aspetti. Specialmente in Italia, a cui l'epiteto di “culla del Rinascimento” è valso per secoli grandi onori, e che ha dato i natali ad alcuni dei più grandi umanisti e scienziati (nonché tecnici) della storia – un nome su tutti: Leonardo Da Vinci.

Se il cancelliere Merkel, alla guida della prima economia in Europa, “draga” ingegneri in crisi (italiani e non solo), riuscendoci proprio perché siamo in crisi (e questo avviene già da tempo: in un solo weekend dell’ormai lontano dicembre 2011 sono sbarcati dall’aereo a Schwabish Hall, nel Baden-Württemberg, cento ingegneri spagnoli), credere che la scienza e la tecnica (e ancor più la tecnologia) siano l’unica risposta ai problemi ­– pratici, economici e sociali – del futuro dell’umanità, può rivelarsi una scelta scontata, ma anche miope.

Rispetto a dieci anni fa, per esempio, una laurea in ingegneria non garantisce più un lavoro, tanto quanto non la garantisce una laurea in lettere (a meno che, appunto, non si scelga la via dell’emigrazione). Ecco perché, probabilmente, i pensatori e i mass media auspicano un ritorno agli studi classici: se la palla è rimessa al centro, tra chi si forma “scienziato” e chi “umanista”, sta al miglior calciatore centrare la rete.

Umberto Eco, in un recente editoriale per L’Espresso (Elogio del classico) racconta di come Olivetti assumesse, sì, ingegneri, per progettare macchine da scrivere e computer, ma anche laureati con tesi su Hegel, e ne facesse grandi manager. E Trenitalia si è recentemente rivolta al dipartimento di studi filologici, linguistici e letterari dell'Università La Sapienza, per redigere i manuali per gli annunci, o meglio per “tradurlo dall’italiano alla neolingua”, denunciano i critici. In ogni caso, un lavoro per cui serve un umanista.

Provocatoriamente lo zoologo Ferdinando Boero, sulle pagine di Internazionale scrive: “la matematica è una lingua rigorosissima, la lingua della fisica, ma in altri campi della scienza non ha importanza fondamentale. Uno dei libri che più ha cambiato la nostra visione del mondo è L’origine delle specie di Darwin. Un altro è l’L’origine dell’uomo, sempre dello stesso autore. Non c’è matematica in questi libri”.

Nessuno vuole dimenticare Giulio Natta, l’ingegnere umanista che si diplomò al classico a soli 16 anni, premio Nobel e inventore della plastica, e preferirgli il coevo Gadda, che invece, pure lui ingegnere, si mise a fare lo scrittore. Un paese ha bisogno di entrambi, ma soprattutto ha bisogno che i suoi cittadini siano competenti in ambedue i campi (diversamente da quanto, purtroppo, rivelano i sondaggi OCSE). Non è accettabile che a un ingegnere si perdonino ortografia e sintassi zoppicanti “perché tanto deve saper fare i conti”, o, viceversa, che l’umanista vanti la sua ignoranza in fatto di matematica o scienze.

Non a caso è in atto un processo spontaneo di avvicinamento tra i campi del sapere, di natura trasversale: gli ingegneri riscoprono le loro radici umanistiche e gli umanisti realizzano la necessità del dialogo con i tecnici. La prossima primavera l’Università di Torino terrà un convegno dal titolo Umanesimo corsaro: uno sguardo interdisciplinare al di là dei confini, che vedrà tra i relatori, ad esempio, Lucio Russo, fisico, filologo e storico della scienza, celebre per il saggio La rivoluzione dimenticata in cui ricostruisce l’evoluzione del pensiero scientifico dalla Grecia antica al mondo bizantino. Anche in questo caso, ha senso domandarsi se Russo sia un umanista o uno scienziato?

Non importa da che parte la si approcci: la cultura è universale, come ricorda lo stesso Umberto Eco nel suo Elogio del classico: “prepararsi al domani (aggiungiamo: specie in tempi di crisi) vuol dire non solo capire come funziona un programma elettronico ma concepire nuovi programmi. E accade che gli studi classici ancora possano preparare a concepire i mestieri di domani”. Quanto a quelli scientifici, sul breve periodo garantisce la Merkel.

Valentina Berengo

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