UNIVERSITÀ E SCUOLA
Meglio Picasso o Mozart? Quando i numeri non hanno senso
Berkeley University. Foto: Stefano G. Pavesi/Contrasto
Nat è una persona felice. Si è laureato ad Harvard nel 1961 grazie a una borsa di studio completa e, tre anni più tardi, ha ottenuto un dottorato di ricerca all’università del Michigan. Si è dato sempre un gran da fare, oggi come ieri, quando al college era circondato da figli di famiglie facoltose e lui doveva sbrigarsela da solo, contando sulla sua borsa di studio e qualche lavoretto. Non si è mai risparmiato, ha persino rinunciato a una cattedra di ruolo per fare mille lavori saltuari a cinque dollari l'ora. Oggi Nat si guarda indietro e tira le somme, scoprendosi felice: gode di ottima salute, vive in una grande casa, ha una moglie fantastica, figli e nipoti amorevoli, una passione per il golf. È a questo punto che si chiede quanto possa davvero valere una classifica “in cifre” dei college del suo Paese e quanto, invece, possa rivelarsi pericolosa: “Misurare che cosa? È meglio Harvard della Boise State University? Picasso era forse un artista migliore di Beethoven o di Jimi Hendrix? Non si può pensare di classificare tutto”.
Il commento di Nat fa parte delle reazioni sul tema delle classifiche delle università dopo le considerazioni pubblicate, il 17 dicembre 2013, sul New York Times, da Bradley W. Bateman, preside del Randolph College (Lynchburg, Virginia).
Si torna a parlare del programma di riforme dell’educazione superiore, proposto e anticipato nell’agosto scorso dal presidente Obama. Al centro della questione i nuovi e discussi criteri di valutazione dei college, pensati per sostenere gli studenti con meno possibilità economiche: voto di laurea, prestiti per le rette, percentuali di riceventi delle borse di studio Pell, guadagni post-laurea. Bateman ritiene che il sistema di valutazione, che con buona probabilità sarà ufficialmente presentato nella primavera del 2014, potrebbe danneggiare tutte quelle università che stanno già facendo del loro meglio per sostenere gli studenti più poveri e porterebbe, inoltre, ulteriori complicazioni perché, seguendo questa via, si andrebbero a scoraggiare i college nell'ammettere studenti “rischiosi” che potrebbero non portare a termine il percorso universitario o non guadagnare stipendi significativi dopo aver conseguito la laurea.
“Entro l’inizio dell’anno scolastico 2015 – scrive Bateman –, per valutare le opzioni di studio, gli studenti in età da college saranno guidati dal dipartimento dell’Educazione attraverso una classifica che non si baserà sulle qualità accademiche o sulle opportunità di far festa, ma sul ‘valore’. In un momento in cui i costi dei college stanno lievitando e milioni di americani vengono esclusi dall’educazione superiore, una classifica di questo tipo sembrerebbe una buona idea. Ma non lo è”.
Il perché, per Bateman, è presto detto: “Il programma – spiega - non plasmerà solo le scelte degli studenti, ma fornirà degli alibi alle università stesse”. Solo qualche esempio: le valutazioni basate sui guadagni dei neo-laureati incoraggeranno le università a minimizzare la preparazione per quelle professioni sociali che vengono pagate meno, come gli educatori per l’infanzia o gli assistenti sociali. Le valutazioni basate sui voti di laurea porteranno ad ammettere un minor numero di studenti, valutando molti di loro non abbastanza preparati per il college. “Queste sono preoccupazioni serie per quelle università che stanno già provando ad aiutare gli studenti meno abbienti e che tendono ad avere voti di laurea più bassi”.
Una condizione aggravata dal fatto che le università con meno disponibilità economiche non sono certo in grado di lavorare efficacemente con “studenti a rischio” allo stesso modo delle università più ricche. Da qui la riflessione finale di Bateman, accompagnata dalla volontà di fornire nuovi spunti di riflessione ed eventuali soluzioni alternative. “Ed ecco il problema centrale del sistema proposto dal Presidente: l’idea che tutto possa essere misurato. Non c’è un modo per ridurre una problematica complessa, quale la qualità dell’educazione superiore, in un’unica cifra di valutazione. Fare in modo che più studenti a basso reddito arrivino a concludere l’università è un bene inestimabile, ma ciò non significa che essi siano realmente preparati per il mondo del lavoro”.
E conclude: “La Casa Bianca potrebbe iniziare rendendo disponibili in Rete tutti i dati che ritiene importanti e utili per uno studente che deve fare una scelta per il college”, cominciando a comunicare il polso culturale di un campus e fornendo informazioni sulle università in grado di offrire, per esempio, un buon “counseling” per il supporto emozionale e morale, aspetto centrale soprattutto per le famiglie a basso reddito, “piuttosto che raccogliere dati da distillare in un’unica cifra. Il Presidente ha ragione nel voler comunicare le opportunità di educazione ‘più povera’ e renderle disponibili a molti studenti a basso reddito; ignorare questo problema vorrebbe dire abbandonare il sogno americano, ma avrà bisogno di molto più che le sole cifre per portarlo a termine”.
Francesca Boccaletto