UNIVERSITÀ E SCUOLA
Orientamento: come fanno negli Stati Uniti?
Una soluzione radicale al problema dell’orientamento c’è: il sistema americano. Prima di tutto, non ci si iscrive direttamente a Economia, a Legge, men che meno a Medicina, ma si deve passare prima per una School of Arts and Sciences che dura quattro anni e poi si viene ammessi a una Business School, a una Law School o a una School of Medicine, a condizione di avere certi requisiti. Quindi, tutti (con eccezioni come Architettura, che qui non ci interessano) devono avere una preparazione generale: i futuri medici o avvocati devono frequentare corsi di filosofia o di antropologia perché si pensa che il compito dell’università non è formare tecnici ma persone che ragionano. Esattamente il contrario dell’opinione dominante oggi nel dibattito italiano, dove c’è l’ossessione per le facoltà “utili”, che poi sarebbero quelle che garantiscono un impiego a tempo indeterminato il giorno dopo la laurea (una pura illusione, ovviamente).
Se si guarda ai requisiti della School of Arts and Sciences dell’università di Pittsburgh (una buona università ma non una delle prime dieci negli Stati Uniti) si scopre che tutti gli studenti devono: 1) imparare a scrivere frequentando almeno tre corsi specifici. 2) Avere dei rudimenti di matematica e statistica sufficienti per ragionamenti quantitativi corretti. 3) Frequentare un corso di letteratura, due di arte, uno di filosofia, uno di scienze sociali, uno di storia, tre di scienze naturali, due di lingue e addirittura quattro di cultura straniera. Un programma intenso, che in teoria permette agli studenti di non avere una visione provinciale del mondo e di restare ignoranti sulle basi della cultura umanistica. È all’interno di questo percorso di quattro anni che gli studenti scoprono cosa vogliono e possono fare (con un forte sostegno di consiglieri specializzati) non nei due mesi fra l’esame di maturità e l’iscrizione al primo anno.
In Italia, ovviamente è diverso: lo studente che vuole iscriversi a chimica o archeologia lo fa direttamente, salvo scoprire dopo qualche settimana di non avere le basi per seguire con profitto le lezioni, o la resistenza intellettuale per affrontare i manuali di 700 pagine (ammesso esistano ancora).
Mio nipote, che l’anno scorso si era iscritto a scienze politiche a Bologna, quest’anno è passato a giurisprudenza: anno e soldi persi per mancanza di orientamento, direbbe qualcuno. In realtà le cose non stanno esattamente così: la stragrande maggioranza degli studenti a 19 anni non ha alcuna idea di ciò che potrà o vorrà fare in futuro. Lo scopre facendo esperienze all’università: frequentando i corsi e scoprendo quali materie sono più interessanti, stimolanti, appassionanti. lo scopre incontrando altri studenti, partecipando ad attività di volontariato, a manifestazioni politiche, a campagne ecologiche, perfino bevendo lo spritz in piazza. L’università, prima di insegnare politica comparata o diritto romano, insegna (o dovrebbe insegnare) che il mondo è complicato ma affascinante e che studiare è meraviglioso (oltre che utile e necessario). Marco, quindi, ha guadagnato un anno scoprendo che il diritto gli piace e che può ottenere buoni risultati. Resta da vedere quanto sarà soddisfatto di questa scelta dopo la laurea, all’impatto con il mercato del lavoro.
Già, perché nelle discussioni sull’orientamento si dimentica una cosa: si studia prima di tutto per migliorare la propria condizione, o quanto meno ottenere uno stipendio decente. E questo non è affatto un problema individuale, una questione di attitudini, carattere, forza di volontà e altre doti del singolo: è innanzitutto un problema di come va l’economia, di come funziona il mercato del lavoro. Sul sito di Almalaurea si trovano storie come quella di Elisa, classe 1985, che descrive così la sua situazione: “Svolgo lavori saltuari, ripetizioni, attività di segreteria e insegno le lingue straniere, un patrimonio che mi è servito molto e che mi permette anche in questi momenti di crisi nerissima, di lavorare un po’. Tutte le mie speranze e i miei sogni sono finiti in fondo al cassetto. Non c’è giorno che non invii CV per posizioni attinenti al mio profilo e alle esperienze che ho fatto”. Elisa sa cinque lingue e ha una laurea in marketing che sperava fosse appetibile per le aziende: non è stato così.
La disoccupazione giovanile al 43,7% apparentemente non impressiona più nessuno, certo non il governo che non ha fin qui annunciato iniziative per combatterla, se non un Jobs Act che incrementa la già elevatissima precarietà dei contratti. Nel 2007, la disoccupazione giovanile era meno della metà di oggi, il 20%, e qualsiasi discussione dovrebbe partire da qui. L’Italia e l’Europa stanno attuando politiche economiche che penalizzano chi entra oggi nel mercato del lavoro, in particolare i giovani, e questo non è un problema di buoni consigli allo studente spaesato. (2-fine)
Fabrizio Tonello