SCIENZA E RICERCA

In Pakistan sulle tracce di Alessandro Magno

Lavorare senza sosta dalle 4 di mattina fino alle 11.30 al massimo. Oltre non si può andare: l’aria diventa carica di umidità e il caldo inizia a essere soffocante, meglio rientrare alla base e riprendere il lavoro di scavo alle prime luci dell’alba. Metodologia, capacità di interagire con le popolazioni locali, pazienza e determinazione. 

Certo, fare l’archeologo non corrisponde del tutto all’immaginario creato dai molti film sul genere, ma il lavoro svolto è fonte di scoperte di primaria importanza per la ricostruzione storica e offre anche la possibilità, concreta, di dare un aiuto alle popolazioni locali in aree economicamente disagiate e a rischio di perturbazioni politiche e belliche. 

Il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova è impegnato in una missione nella valle dello Swat, nel nord-ovest del Pakistan, alla ricerca delle tracce delle conquiste di Alessandro Magno e delle origini della lingua indoeuropea. Due gli archeologi nella regione nell’ambito di una collaborazione con la fieldschool Act (Archeology, Community, Tourism), diretta da Luca Maria Olivieri della Missione Archeologica Italiana in Pakistan: Massimo Vidale e Michele Cupitò che sono rimasti nello Swat per un mese tra la fine di maggio e giugno e prevedono di tornarci in due riprese tra l’autunno e la primavera prossima per proseguire gli scavi in una zona in cui l’Italia è presente fin dal lontano 1955. 

Lavorare nello Swat, per quanto la popolazione locale sia ben disposta e collaborativa non è esente da rischi. La valle si trova infatti a pochi chilometri dal confine con l’Afghanistan e in tempi recenti, oltre a essere stata travolta da eventi naturali devastanti (terremoto e alluvioni), era stata anche soggetta alla temporanea occupazione militare dei Talebani. I protocolli di sicurezza sono ancora rigidi: “I movimenti sono abbastanza blindati - spiega Michele Cupitò, alla sua prima esperienza in Pakistan - ci troviamo a 20 chilometri dal confine afghano e c’è poco spazio per le divagazioni”. Ci si muove al massimo dalla sede storica della missione, costruita nel 1955, al luogo di scavo e ritorno, niente di più. A ripagare è il rapporto con i locali. Andare nello Swat, infatti, non significa solo, come vedremo, lavorarare per riportare alla luce lo scenario archeologico della diffusione in India delle lingue indoeuropee o scoprire le tracce del passaggio delle truppe di Alessandro Magno durante la sua conquista dell’Asia. Significa anche intrattenere rapporti con la popolazione, fornire lavoro, salari e una speranza per il futuro delle tribù locali che soffrono situazioni di disagio. “Il progetto - dice Massimo Vidale - sta dando lavoro alla seconda generazione delle famiglie che hanno ospitato le prime spedizioni archeologiche italiane. La società del posto si basa su regole tribali per cui lealtà e ospitalità sono obblighi inderogabili”. Parlano il pashtun, una lingua di origine iranica e non indiana, e seguono un codice religioso, di onore e di cultura, indigeno. “Entrare in contatto con loro - spiega Cupitò - significa comprendere una civiltà diversa e aprirsi ad altri modi di pensare”. 

La missione prevede una fieldschool, una scuola sul campo: gli archeologi sono impegnati in uno scambio di metodologie di scavo e di restauro con i colleghi del luogo e delle università pakistane, e alla popolazione locale viene poi affidata la sorveglianza dei siti e la loro gestione. “Il progetto di cooperazione - prosegue Vidale - garantisce che più di due terzi dei finanziamenti rimangano in loco e ha consentito di assumere 30 persone che abbiamo formato e stiamo formando come guardiani, restauratori o guide turistiche”. Si tratta di un metodo per rilanciare l’economia locale e salvaguardare le aree di interesse storico-archeologico perché non vengano abbandonate o depredate da contrabbandieri di sculture di grande valore commerciale da vendere poi al mercato estero. “Siamo stati costretti a mettere in sicurezza molti scavi - dice Vidale - i clandestini avevano scavato in profondità soprattutto le antiche aree sacre buddiste - come quella di Amluk-dara, databile al II-VI secolo d.C. - con tortuosi tunnel all’interno dei siti e depredato senza alcun riguardo per i monumenti”. 

Gli scavi al momento sono concentrati in zone diverse, tra le quali Barikot - l’antica città di Bazira, conquistata da Alessandro Magno nel 327 a.C - e Udegram - nell’antichità chiamata Ora e conquistata sempre da Alessandro Magno -. In quest’ultima si concentrano le nuove ricerche, grazie allo scavo di una antica necropoli: “Abbiamo scavato finora due grandi tombe - spiega Vidale - in un ottimo stato di conservazione, con camera in pietra, con vasi ed altri oggetti, e resti dei tumuli in terra che le coprivano. A novembre vogliamo allargare la trincea e scavarne altre cinque o sei”.

L’interesse per questa necropoli è elevato: il radiocarbonio data le due tombe intorno al 1300-1200 a.C., proprio quando i filologi collocano la più antica presenza linguistica indoeuropea nel subcontinente indo-pakistano. “Parliamo del sanscrito: molti credono che proprio in questo periodo alcune popolazioni del Asia centrale siano scese fino in India portando con sé una delle forme più arcaiche di questa lingua”. “Lo scavo delle tombe permetterà - dice Cupitò - di ricostruire nel dettaglio le usanze funebri dei popoli antichi dello Swat”. Grazie allo studio dettagliato dei processi di formazione degli strati dentro e sopra le tombe - e della disposizione dei reperti (vasi da cucina, coppe e bicchieri per il vino ed altro) sarà possibile capire meglio come si svolgevano i riti funebri; si cercherà di comprendere se la necropoli fosse organizzata per tribù e i tumuli gestiti dai “clan” come una sorta di mausolei di famiglia. 

Sempre a Udegram il progetto sta portando avanti il restauro della moschea, una delle più antiche del Pakistan, costruita agli inizi dell’XI secolo dal conquistatore afghano Mahmud di Ghazni. Il restauro ha restituito l’edificio al culto, con la costruzione di una nuova strada d’accesso e dei bagni; tra poco sarà ultimato da una copertura lignea. Un altro grande cantiere di restauro sta sistemando le rovine del grande stupa (monumento devozionale buddhista) di Saidu Sharif, scavato in passato dagli italiani Domenico Faccenna e Pierfrancesco Callieri. 

Vidale e Cupitò torneranno in Pakistan a ottobre e in marzo, se le condizioni di sicurezza lo permetteranno. In particolare, in primavera si dedicheranno all’indagine degli strati più profondi dell’antico centro di Barikot, dove Luca Maria Olivieri sta riportando in luce, per un’estensione di un ettaro e mezzo, i livelli finali di vita della città, databili al V-VI secolo d.C.: le ultime trincee del genere, davvero d’altri tempi, erano state scavate nella regione prima della Seconda Guerra Mondiale. La trincea di Barikot rappresenterà l’attrazione principale del nuovo network turistico dello Swat. 

“Una delle nostre ambizioni scientifiche - concludono Vidale e Cupitò - è però quella di trovare le tracce della conquista di Alessandro Magno, per poi passare ai periodi più antichi quali l’età del bronzo e del ferro”. Gli archeologi così verificheranno sino a che punto le indicazioni delle fonti antiche sul passaggio dell’esercito macedone in questa regione dell’Asia, primo momento dell’incontro tra la civiltà della Grecia classica e quelle dell’Oriente, sono fondate.

 

Mattia Sopelsa

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