SCIENZA E RICERCA

Petrolio e gas: il club esclusivo dell'Artico

Intrighi diplomatici e militari ai massimi livelli e un interesse economico crescente da parte delle multinazionali dell’energia e dei trasporti: la regione del circolo polare artico da un po’ di anni a questa parte si sta trasformando in una sorta di nuova eldorado, in cui i giochi di potere stanno interessando sia i Paesi che confinano naturalmente con l’artico, sia quelli che allungano le loro mire economiche sull’area a ridosso del Polo Nord.

Il motivo scatenante è semplice: arrivare a sfruttare l’ingente quantità di petrolio e gas naturale intrappolata nelle profondità dell’artico. Un’indagine geologica effettuata dagli Stati Uniti nel 2008 avrebbe infatti dimostrato che l’artico racchiude più del 30% delle risorse di gas naturale non sfruttate e il 13% di quelle di petrolio. Il rinnovato interesse per la regione però è dovuto a un’altra congiuntura, in questo caso ambientale, senza cui non sarebbe possibile considerare uno sfruttamento energetico: lo scioglimento dei ghiacci. L’artico è infatti soggetto a un cronico assottigliamento dei suoi ghiacci, soprattutto nel periodo estivo. Tra il 1979 e il 2000 l’area del ghiaccio in estate arretrava di circa 5.000 metri quadrati all’anno; tra il 2001 e il 2012 questo dato è arrivato a oltre 20.000 metri quadrati. Il fenomeno ha incoraggiato le multinazionali del petrolio a intraprendere studi per eventuali perforazioni, anche se i costi di estrazione rimangono alti. D’altra parte, anche i governi hanno messo gli occhi sulle risorse che, nell’ottica di un futuro consumo di energia sempre maggiore da parte dell’uomo, potrebbero essere un serbatoio utilissimo. Assieme allo sfruttamento delle risorse fossili, lo scioglimento dei ghiacci sta portando anche a un aumento del traffico navale nell’artico nelle due rotte finora interdette alla navigazione: quella del Nord e il famoso passaggio a Nordovest. 

Ecco allora che i cinque Stati con un’estesa linea costiera sull’artico (Stati Uniti, Canada, Norvegia, Russia e Danimarca) stanno cercando il modo di poter sfruttare i giacimenti, lavorando sia a livello militare sia a livello diplomatico. Nessuna guerra in vista, ma per il momento cooperazione, anche se alcuni analisti, come Rob Huebert (centro studi strategici e militari dell’università di Calgary) parlano dell’artico come “dell’Europa del 1935”. Un rapporto del dipartimento della Difesa americano (32 pagine datate 2011) mette in evidenza la necessità di un “metodo cooperativo” per la salvaguardia dell’artico, ma pone l’accento anche sulla necessità di “prevenire e dissuadere” i conflitti nella regione e “di prepararsi a rispondere a un ampio ventaglio di sfide e situazioni operando con altri Paesi o in forma autonoma, se necessario”. Il documento prosegue con una serie di raccomandazioni sul contingente militare presente nell’artico e sulla necessità di dotare le navi della marina Usa di rompighiaccio. 

A livello diplomatico, lo scacchiere è rappresentato dai membri del Consiglio dell’Artico, ente sovranazionale di controllo e cooperazione del territorio, formato da otto Stati permanenti (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia e Stati Uniti) più una serie di Paesi (compresi Cina e India) che hanno chiesto di entrare come osservatori all’interno del Consiglio. Lo scopo appare evidente: cercare di avere una parte della torta da spartire. Non è un caso che all’ultima riunione, anche gli Stati Uniti che di solito mandavano come rappresentante un giovane diplomatico, si siano mossi con l’ex segretario di Stato, Hillary Clinton, in persona, segno che le tensioni nell’area stanno diventando più forti. È la convenzione Onu del 1982, law of the sea, a sancire i diritti di sfruttamento dell’artico: secondo la Carta, Usa, Canada, Norvegia, Russia e Danimarca hanno una zona di sfruttamento esclusiva pari a 200 miglia nautiche. Ma gli Stati che hanno ratificato il trattato possono richiedere un’estensione dei limiti. L’hanno fatto, per ora, la Norvegia (esito positivo) e la Russia, a cui invece è stata chiesta maggiore documentazione. Soprattutto dopo la spedizione (2007) con cui i russi avevano tentato di vantare diritti di proprietà su un’area di fondale artico in cui avevano posizionato una loro bandiera. Canada e Danimarca stanno per chiedere nuove concessioni, mentre gli Stati Uniti non hanno mai ratificato l’accordo del 1982. Si tratta di una possibile vera e propria disputa sui confini che coinvolge Paesi alleati nella Nato (eccetto la Russia), che dovrà essere combattuta attraverso il diritto internazionale per capire chi davvero potrà ottenere più territorio artico di altri. 

Ma il ritrovato interesse per l’artico pone una serie di allarmi anche dal punto di vista climatico e ambientalista. L’equilibrio del territorio è fragile e già l’aumento delle rotte commerciali marittime potrebbe aggravare la situazione ambientale. A questo si aggiunge il rischio di un aumento esponenziale dei gas serra nell’atmosfera nel caso in cui si iniziassero a sfruttare i giacimenti di gas naturale e petrolio. A dirlo è Greenpeace nel suo ultimo rapporto: “Se le compagnie petrolifere estrarranno otto milioni di barili al giorno tra gas e petrolio - si legge nel documento - le emissioni di anidride carbonica nell’aria potrebbero raggiungere 520 milioni di tonnellate all’anno entro il 2020, pari al totale di quanto prodotto dal solo Canada”, mentre il numero potrebbe salire fino a 1.200 milioni di tonnellate entro il 2030. Abbastanza per preoccuparsi e fare in modo che l’artico non diventi la terra di sfruttamento dei prossimi decenni.

Mattia Sopelsa

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