CULTURA

Pietro, il senso del padre

Pietro è portinaio da solo un mese ed è stato prete per molto tempo. Un prete che ha divorziato da Dio perché “non aveva un carattere facile”, un portinaio Kibutzer, impiccione, come lo definisce un condomino. Non è forse un impiccione, un prete, obbligato per vocazione a farsi i fatti degli altri? Non è forse un portinaio, il prete, colui che tiene aperta una porta, rende accogliente una casa, assiste chi ci vive? Ma Pietro, il protagonista dell'ultima opera letteraria di Marco Missiroli, “Il senso dell'elefante”., è anche padre.

Il nome scelto  non è un caso, poiché Pietro è anche chi gestisce le porte del cielo, casa ultima e desiderata dove entriamo solo in virtù di quel che portiamo nel silenzio della nostra anima. Da sacerdote a custode, Pietro non smette - suo malgrado - di esercitare il ministero della paternità, e conosce e riconosce intorno a sé infiniti altri padri (e madri), ognuno con un fardello, che vegliano e curano figli propri e altrui. Non sono forse tutti impiccioni, i padri? E i preti, in fondo, non sono padri di tutti? Non si smette di essere prete, come non si smette di essere padre, perché la paternità è una condizione dell'anima, uno stato del cuore, per cui dell'altro ci si prende cura, sull’altro si veglia, anche da lontano, che sia un parente o un vicino di casa, un bimbo in ospedale o una persona che attraversa ogni giorno la difficoltà del vivere.

Non tanto e non solo paternità, quanto il prendersi cura di un corpo e di un’anima. L’occuparsi di un altro, proteggere una sofferenza, accompagnare un destino, rendere lieve un percorso. Per un figlio, qualunque figlio, si soffre e si lotta, per un figlio si impara la devozione. Pietro raccoglie e conserva - con malinconica ossessione - gli oggetti minimi propri e altrui. Ne preserva l'esistenza, per mantenere la memoria dell'emozione che li ha generati. Li custodisce, perché valgono, anche se trascurati da chi quelle esperienze ha vissuto o quegli oggetti possiede, perché un padre trattiene al mondo le emozioni che i figli buttano via, e di cui un giorno torneranno ad avere bisogno, perché di quelle emozioni e di quei ricordi è intessuta la loro vita.

Tra padri che sbagliano o convivono con la paura, madri che “mancano” e ingannano, in un mondo in cui “Dio non si intende di queste cose”, dove esistono dolore e sofferenza, esiste sempre l'onnipresenza della cura, anche nel mezzo della solitudine, nella foschia, nella notte. I padri sono ovunque e non li riconosciamo, la cura è ovunque, anche quando non la sappiamo vedere. Perché anche tacere un segreto è una forma di cura, lavare le scale è cura, rubare un campanello, coprire un figlio con la falda del cappotto, tirare tardi al lavoro, praticare un’iniezione, persino origliare i vicini; e accogliere le lacrime con un abbraccio.

 

Marco Missiroli, Il senso dell’elefante, Guanda, 2012

 

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