SOCIETÀ

Pino Scaccia: “Cara Francesca, al fronte si è sempre soli”

È entrato nella centrale di Chernobyl subito dopo il disastro, ha scoperto i resti del Che in Bolivia ed è stato il primo a dare notizia della liberazione del piccolo Farouk Kassam, rapito in Sardegna nel 1992; nei suoi servizi ha spaziato dalla mafia ai fronti di guerra di tutto il mondo. Dopo tanti anni in Rai, come pochi altri in Italia Pino Scaccia  è ‘l’inviato di guerra’ per antonomasia, anche se a lui quest’etichetta non piace.

Intanto non si placa la discussione intorno all’articolo pubblicato dalla Borri sulla Columbia Journalism Review, tanto che alcuni blogger italiani hanno chiesto una verifica, ventilando dubbi sulla veridicità di alcune informazioni. A Pino Scaccia abbiamo chiesto un parere sulla qualità dell’informazione in Italia e sulla comunicazione tra vecchie e nuove generazioni di giornalisti.

“Capisco Francesca Borri e conosco perfettamente quanto sia difficile lavorare  in certi scenari, persino con una struttura alle spalle. La sicurezza costa, molto, ed è una difficoltà seria quando si va da soli – commenta Scaccia – Per simpatia sto dalla sua parte; tutti i reporter però prima o poi si sentono soli, in particolare in certi posti. È una scelta di vita prima che professionale. Ci sono i turisti e i viaggiatori: un inviato è un viaggiatore, anche se molto sui generis”.

Per i freelance però non è tutto molto più difficile e pericoloso? “Loro devono vendere il pezzo, quindi purtroppo sono costretti a cercare sempre qualcosa in più rispetto agli altri. Vale anche per i fotografi e gli operatori. Sicuramente lì si fa veramente giornalismo; quella di fare questo mestiere del resto è una scelta, non li costringe nessuno”. Anche tra gli inviati delle grandi testate ci sono quelli che stanno in albergo e quelli che vanno al fronte: “In Libia ad esempio alcuni rimanevano a Bengasi, io percorrevo 800 chilometri ogni giorno nel deserto per andare nel cuore degli scontri. Sono sempre scelte”.

Per la vostra generazione non è stato tutto più facile? “Non credo: per molti anni ho passato Natale e capodanno lontano da casa, ho perso i 18 anni di mio figlio e il funerale di mio padre. Si pensa alla vita degli altri e si perde di vista la propria”. E il precariato? “ C’è sempre stato, una volta ci chiamavano ‘abusivi’. Anch’io ho lavorato sette anni senza contratto; ricordo ancora, dopo quattro-cinque anni di lavoro a ritmi micidiali, le prime 5.000 lire, e poi il primo rimborso per una trasferta. All’inizio facevo soprattutto spettacoli e sport, credo però che anche all’estero non tutti fossero in regola”. Oggi però il problema dei compensi è particolarmente grave: “Vero. Fino a qualche anno fa per un servizio dall’estero in Rai per Tv7 pagavano anche 3.000 euro; adesso con l’austerity non si compra più niente, magari danno 100 euro”.

Una volta si iniziava correggendo le bozze: “Ricordo quando con Claudio Sabelli Fioretti dormivamo in tipografia. Scrivere era già una conquista, non parliamo della firma. In famiglia mi consideravano un fallito, mi volevano assicuratore come mio zio; io invece facevo l’imbecille a scrivere gratis per i giornali 20 ore al giorno. Da Roma per avere il contratto andai ad Ancona, otto anni al Corriere Adriatico, poi la Rai. E anche lì gavetta in provincia, anni trasmettendo notizie sul traffico in collegamento dall’autostrada”.

Oggi però lo sfruttamento dei giovani reporter pare abbia oltrepassato il limite. “Sono bei discorsi, ma tutto questo rientra nella grande crisi del giornalismo”. “Una volta il mestiere si imparava a bottega, che poi era la strada – continua Scaccia – dopo qualche anno se eri bravo ti prendevano, magari dopo una selezione durissima. Oggi si diventa giornalisti direttamente all’università: ci sono attualmente 3.000 giornalisti professionisti disoccupati, a cui se ne aggiungono altri 300 ogni anno. Una follia. Un altro colpo è venuto da internet: sta nascendo la generazione dei copia-incolla. Non tutto però si trova su Google”.

Da dove nasce questa frattura di cui parla Francesca Borri tra vecchi e giovani reporter? “Secondo la mia esperienza dipende in gran parte dalle nuove generazioni: sono loro che sfuggono o addirittura rifiutano l'aggancio”. Perché secondo te? “Noi forse eravamo più umili: cercavamo di attaccarci il più possibile ai vecchi maestri: per me ad esempio Franco Catucci e Roberto Morrione; anche Bruno Vespa e Paolo Frajese però, con i quali magari discutevo, mi hanno insegnato tante cose. Ancora oggi quando vado in un posto nuovo, cerco sempre di contattare prima un collega che c’è già stato. Ultimamente invece sono stato per mesi in Afghanistan e in Iraq: quasi nessuno dei giovani mi ha chiesto un consiglio”.

Cosa è cambiato oggi nel mondo dell’informazione? “Su una questione Francesca Borri ha ragione: il reportage di guerra in Italia sta finendo, siamo troppo provinciali. Prima le trasferte erano lunghissime: ho passato due anni nei Balcani, uno di in Iraq, tre mesi nelle Filippine per il rapimento di don Giancarlo Bossi nel 2007. Ricordo settimane di appostamenti in Argentina per ottenere una foto di Erich Priebke. Oggi le aziende non mandano più nessuno: è meno costoso e più facile fare il lavoro di redazione, assemblando immagini e testi dalle agenzie e dai free lance. Così però si diventa impiegati della notizia”.

E come si esce da questa situazione? “A volte noi ‘vecchi’ ci sentiamo un po’ gli ultimi mohicani, come dice Ettore Mo. Del resto anch’io quando scrivo di cose serie sul mio blog vengo considerato poco – scherza Scaccia– se invece faccio un post su Grillo arrivano  250 commenti. I giornali lo sanno e si buttano sulla politica, che costa molto meno”. Poi conclude, serio: “A volte mi chiedo se alla gente interessi ancora quello che succede nel mondo...”.

Daniele Mont D’Arpizio

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