SOCIETÀ
Quei mammoni dei giovani americani
Foto: Alec Soth
Se la mobilità geografica dei lavoratori è da sempre il tallone d’Achille dell’economia italiana, e ora anche europea, è invece storicamente uno dei maggiori punti di forza di quella americana, con individui di ogni età, genere e classe sociale sempre pronti a fare le valigie e trasferirsi dall’altra parte del Paese in cerca di opportunità migliori. Le cose stanno però cambiando anche qui, conseguenza, in parte, della crisi economica degli ultimi anni e di una ripresa finora molto deludente e, in parte, di trasformazioni di lungo periodo e difficilmente reversibili.
Dati dell’US Census Bureau, l’agenzia del governo federale che raccoglie ed elabora statistiche di carattere demografico, mostrano che nel 2000 il tasso di mobilità negli Stati Uniti, ovvero la percentuale di americani che in un determinato anno cambia paese, contea o stato, era del 14,5%. “Trent’anni fa eravamo addirittura sul 20% – dice Peter Francese, demografo e consulente del New Hampshire – Ora invece siamo sotto il 12%, il livello più basso mai registrato.” Il declino è avvenuto prima gradualmente, e poi ha accelerato all'improvviso a causa della recessione.
Alle origini di questo fenomeno, dice Francese, ci sono innanzitutto evoluzioni strutturali più che contingenze economiche. Ad esempio l’aumento del numero di persone sopra i 65 anni, che tradizionalmente hanno un tasso di mobilità di molto inferiore alla media (sotto il 5%) Questo è dovuto all’invecchiamento dei baby boomer, la generazione numericamente consistentissima nata subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e al calo delle nascite avvenuto negli ultimi decenni. Anche la transizione a un’economia digitale ha giocato un ruolo importante, rendendo sempre più facile lavorare da casa e di conseguenza meno importante il luogo di residenza ai fini di una remunerazione soddisfacente. “A nessuno importa dove vive un grafico di talento – dice Francese – Non vogliono necessariamente vederti in faccia, a patto che consegni regolarmente il lavoro commissionato”.
Su questa realtà già così fluida e in continuo cambiamento si è poi abbattuta la crisi, che ha contribuito in particolare a scoraggiare la mobilità dei giovani tra i 25 e i 34 anni - quelli che oggi appartengono alla "Generazione Y" - che invece sono sempre stati il gruppo demografico più propenso a prendere su e spostarsi altrove per ragioni di lavoro. “Gli stipendi sono calati – spiega Francese – e questo rende più difficile giustificare i costi di un trasferimento”. La crescita esponenziale del debito studentesco – quei prestiti contratti per pagare l’università che hanno ormai superato quota mille miliardi di dollari - non aiuta, giacché spinge i neo-laureati, indebitati fino al collo e con prospettive professionali nella maggior parte dei casi misere a starsene più a lungo possibile a casa con i genitori anziché mettere su famiglia per conto proprio, raggiungere i fidanzati e le mogli in altre città o tentare fortuna in un altro stato. Nel 2013, il 13,6% dei millennial abitava ancora con la famiglia d’origine: una percentuale in netto aumento rispetto al 10% registrato nei primi anni 2000.
Naturalmente questa situazione ha profonde conseguenze non solo a livello individuale, ma per l’economia tutta. Nell’immediato, il calo della mobilità geografica provoca una perdita diretta di attività economica giacché la gente non compra biglietti aerei o nuove autovetture e non acquista o affitta nuove case - che quindi non vengono nemmeno ristrutturate e riempite di nuovi mobili, piatti e decorazioni. Pesante in particolare è la riduzione nel numero delle compravendite di immobili, giacché tanti individui sono coinvolti in questo genere di transazione e se ne avvantaggiano economicamente: agenti, avvocati, banche così come imprese edili, ingegneri, artigiani e via dicendo.
Vi sono poi anche pesanti conseguenze indirette. Innanzitutto un’allocazione delle risorse umane peggiore, con i lavoratori che si accontentano della prima occupazione disponibile e smettono di perseguire opportunità migliori, non arrivando a occupare mai il posto più giusto per loro, quello che può farli guadagnare meglio, comperare di più e pagare più tasse. In secondo luogo, i giovani indebitati e pessimisti riguardo al proprio futuro spendono meno in generale e risparmiano di più, con un effetto a catena sull’economia. “Il debito studentesco è un po’ come avere un mutuo senza una casa – dice Francese – La situazione peggiore che si possa immaginare”.
Almeno in parte, è probabile che il tasso di mobilità, in particolare tra i giovani, ricominci a salire nel momento in cui la ripresa economica si farà più robusta. Ma, secondo Francese, non è il caso di essere troppo ottimisti. L’invecchiamento della popolazione è infatti destinato a continuare ancora a lungo. Nel frattempo, la classe politica di oggi, vittima di una profonda polarizzazione ideologica e, quindi, dell’immobilismo più totale, non pare in grado di intervenire sui due fronti che potrebbero contribuire a migliorare la situazione. Ci sarebbe infatti bisogno urgente di una riforma dell’immigrazione che permetta a più stranieri, soprattutto quelli altamente qualificati, di trasferirsi negli Stati Uniti, e di un ripensamento del sistema del debito studentesco che offra ai millennial una via d’uscita dall’impasse in cui si trovano oggi e un futuro complessivamente più luminoso. E invece il Congresso continua a litigare sulla riforma sanitaria, approvata ormai quattro anni fa, e a discutere generalmente del sesso degli angeli senza che una svolta sembri profilarsi all'orizzonte.
Valentina Pasquali