CULTURA

Renzo Piano e la sfida del "far leggero"

Arriva in anticipo, Renzo Piano, all’inaugurazione della sua mostra. Alza gli occhi stupiti ed esclama “C’è anche la luce!”, e il suo sguardo sorride nell’abbracciare il salone del Palazzo della Ragione a Padova, enorme scrigno medievale che diventa voliera per pannelli fluttuanti, scheletri arancioni simili a grandi animali (ma che poi sono i modelli per la struttura flessibile dell’aeroporto di Osaka) appesi a fili d’acciaio sottili al punto da diventare invisibili. Un allestimento zero gravity – come il suo MUSE a Trento -  per la mostra RPBW. Pezzo per pezzo, che lo studio ha mutuato dall’omaggio del 2006 al maestro di Piano, Franco Albini. E che riprende il tema ricorrente della leggerezza, dello spazio libero e vuoto al suolo, quinta dimensione che appartiene alle persone, luogo d’incontro e passaggio. “Renzo Piano conobbe Franco Albini nel settembre del 1960, nel suo studio, dove cercava lavoro durante gli anni dell’università”, racconta Fulvio Irace, che aveva curato la mostra del 2006. “Il suo primo compito fu quello di disegnare, uno per uno, i 50.000 blocchetti che ricoprivano la Rinascente di Roma. Una lezione che gli rimase: l’architettura si fa pezzo per pezzo”.

Da qui il titolo di una mostra che celebra l’architettura come arte del costruire, come attenzione ai particolari che sommandosi danno corpo allo spazio. Un’esposizione che descrive la linea irregolare di un percorso che ha portato Renzo Piano ad affermarsi come uno dei maggiori interpreti dell’architettura contemporanea, pur ostracizzato fino alla fine degli anni Ottanta dalla critica, che lo relegava a ruolo di semplice tecnologo, a causa della sua caparbia attenzione al particolare costruttivo; “l’intestardimento di fare le cose bene”, rimarca Renzo Piano nel corso della lectio magistralis tenuta nel pomeriggio dell’inaugurazione al Bo. E mostra la foto in cui si nascondeva, da bambino, in un cumulo di sabbia di uno dei cantieri del padre. “Era un piccolo costruttore”, ricorda Piano. “ Vi assicuro che crescere in un cantiere lascia delle tracce profonde. Soprattutto l’idea che costruire sia un’attività straordinaria. I miei primi lavori non sono mica di architettura: sono tutti esperimenti di costruzione. E naturalmente, visto che mio padre costruiva in mattoni, io costruivo in acciaio. Era la scommessa del ‘far leggero’. Questa strana idea di battersi contro la legge di gravità, un’idea un po’ balzana, ma che ti porta istintivamente a lavorare sul terreno della luce, della trasparenza.” Elementi, questi, che ritornano costanti nel lavoro di Piano, soprattutto nei progetti per i musei, dove la ricerca della luce e della sua modulazione definisce spazi e volumi a partire dal disegno della trave, del pannello, del solaio. Accade a Houston, alla Menil Collection, dove lo studio delle travi serve a captare la luce e a ritrasmetterla; alla Fondazione Beyeler, in Svizzera, dove un’architettura trilitica sorregge un tetto volante. Ma anche a New York dove, in risposta all’attentato del 2001, per la sede del New York Times “abbiamo sviluppato la trasparenza. L’opposto di quello che uno si potrebbe aspettare. E questo edificio è fatto di luce”, spiega l’architetto.

Il tavolo dedicato al The New York Times Building, New York (2000-2007). Foto: Massimo Pistore

Ad ogni progetto selezionato per la mostra è dedicato un tavolo che, con otto sedie da regista intorno, diventa isola progettuale, immagine della coralità che sottende il lavoro d’architetto: ci si siede intorno al tavolo e si ragiona, si schizza, si mostrano piccoli plastici volumetrici, si cercano le soluzioni per i dettagli. Un insieme di idee, sforzi e condivisione di ore passate insieme, che l’architetto sottolinea a più riprese: “Tutto questo è un lavoro corale. Vi assicuro che nessuno ha mai tenuto la contabilità di chi aveva le idee. E il lavoro corale è un lavoro nel quale, grazie al cielo, ci si confronta”. Sono 32 i tavoli che, nel loro insieme, raccontano i circa 50 anni di attività dell’ultimo Pritzker Prize italiano (nel 1998; prima di lui solo Aldo Rossi, nel 1990). Sopra di essi si sovrappongono disegni, foto, modelli – perché “la forma nasce dall’intuizione della struttura, che va sempre verificata attraverso il modellino di studio” spiega Fulvio Irace mentre parla del Beauburg (o Centre Pompidou), progetto di svolta nella carriera Piano. “Abbiamo cominciato insieme a Richard Rogers. Era più di 40 anni fa”, ricorda Renzo Piano. “Il Beauburg è chiaramente un gesto ribelle. L’idea di fare una fabbrica nel cuore di Parigi era uno schiaffo. Eravamo nel ’71, a soli 3 anni dal ’68, negli anni in cui i musei erano luoghi ancora abbastanza noiosi e polverosi. E noi eravamo dei ragazzacci. Quindi l’idea di rifiutare l’intimidazione tipica del monumento culturale, e invece usare la curiosità, ci fece pensare che questa fabbrica nel cuore di Parigi potesse diventare l’opposto del museo fatto per l’élite. Infatti il risultato fu una specie di sciagura, e il nostro museo fu considerato una specie di sberleffo. E lo fu. Ancor oggi non mi capacito che ci abbiano permesso di farlo”.

Un dettaglio del Centre Culturel Georges Pompidou, Parigi (1971-1977). Foto: Phil Hilfiker

Ne parla spesso Renzo Piano, di questa sua “folle idea che il mondo possa essere cambiato”. E lo testimonia la sua architettura, partendo dai primi esperimenti “sociali” a Otranto (1979), fino all’impegno, recentissimo, di “rammendo delle periferie”. Finanziato con lo stipendio parlamentare del senatore, è il gruppo di lavoro G124 (dal numero della stanza del senatore Piano a Palazzo Giustiniani), formato da sei giovani architetti, a doversi occupare della rigenerazione e della rivitalizzazione delle periferie italiane. “Se c’è una cosa che posso fare come senatore a vita non è tanto discutere leggi e decreti (c’è già chi è molto più preparato di me). La cosa più utile è fare quello che ho sempre fatto, mettendola a servizio del Paese, nella convinzione che sia necessario essere indipendenti dalla politica, ma non indifferenti”. Il lavoro che si accingono a fare questi giovani è creare spazi vitali per le persone, “fertilizzanti messi nelle periferie perché smettano di essere tali e diventino città. L’architettura ha un grandissimo peso sociale. Si può cominciare dalle scuole, e lavorare sui processi partecipativi, sull’uso di energie alternative, e sull’incentivazione dei trasporti pubblici.”

Sono infatti quasi tutti edifici pubblici quelli rappresentati nella mostra. Perché un museo, una scuola, un ospedale, una biblioteca sono luoghi dove si crea e si sviluppa il rito dell’urbanità caro a Renzo Piano. Lui, dando un ultimo sguardo alla mostra, scrolla la testa: “Non so se abbia senso mettere l’architettura in mostra. L’architettura la si vive, la si sperimenta. Però quello che è interessante è fare vedere lo struggimento, il lavoro, il travaglio dell’architettura. E anche gli errori, le titubanze, i pentimenti. E cercare di mostrare come l’architettura sia un’arte pubblica, in cui si sconfina continuamente dalla scienza alla tecnologia alla militanza, al mondo del sociale. Si sconfina verso l’arte, verso la poesia.” Ed è sorprendente quante cose si possano fare in una vita.

Chiara Mezzalira

 

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