CULTURA

San Valentino: quando realtà e mito si mescolano

È tornato in scena in questi giorni Riccardo III. Non si tratta però di Shakespeare: a finire sotto i riflettori la notizia che il corpo trovato nell’agosto del 2012 da un gruppo di ricercatori dell’università di Leicester appartiene al re inglese. L’analisi osteologica, l’esame al radiocarbonio e, ultimo ma non meno importante, l’analisi del Dna su due discendenti del re inglese confermano quanto ci tramanda su di lui la storia. Riccardo III, in realtà, è solo l’ultimo di una lunga serie. Non sono infrequenti, infatti, “ricognizioni” che mobilitano antropologi, storici, anatomisti, biologi e incrociano storia e laboratorio, nel tentativo di dare una paternità sicura ai resti di personaggi celebri, rinvenuti per caso o appositamente “disturbati”. Prima del re inglese, solo a Padova, sant’Antonio e san Valentino nell’oratorio di san Giorgio a Monselice, nei primi anni Ottanta; Gabriele Falloppia, anatomista del Cinquecento, alla fine degli anni Novanta, Luca Evangelista nel 2003. Fino ad anni più recenti con le ricognizioni dei corpi dei santi Felice e Fortunato di Chioggia nel 2004 e di san Basso nel 2012, tuttora in corso. Non mancano casi clamorosi. Come quello di Francesco Petrarca sepolto, dieci anni fa, senza la testa dopo che l’esame antropologico e l’esame del Dna antico su un dente dell’arcata superiore e su un frammento di costa dimostrarono che la testa, diversamente dal resto del corpo, apparteneva a una donna.

E che dire della ricognizione sui 27 corpi di martiri cristiani di Monselice e, tra questi, di san Valentino? Difficile in questo caso avanzare ipotesi sicure. Un clic su Google e del santo si trova di tutto. Leggende e tradizioni popolari, storia e pratiche religiose. Il problema sorge quando si tenta di tirare le somme. A studiarne la figura sono stati in molti, da Agostino Amore a Vincenzo Fiocchi Nicolai, da Roberto Giordani a Enrico Josi, fino a Francesco Sforza Barcellona. Ma una conclusione certa sulla realtà storica del santo ancora oggi non è stata raggiunta. Già, perché di santi martiri vissuti durante l’impero di Claudio II (268-270), con lo stesso nome, la stessa data dell’anniversario (14 febbraio) e il centro di culto nella stessa via Flaminia, uno al II e uno al LXIV miglio (oggi viale Pilsudski), sembrano esisterne due: un Valentino prete di Roma e un Valentino vescovo di Terni. Due santi diversi dunque o lo “sdoppiamento” della stessa persona? Si tratta della “questione dei due Valentini”, ben nota agli agiografi.

Ma a quale Valentino appartiene il corpo di Monselice, festeggiato il 14 febbraio di ogni anno con un pellegrinaggio di adulti e bambini? Il corpo, che oggi viene conservato quasi completo, giunge nella città della Rocca dai “cimiteri romani” intorno al 1720 con tanto di lettera di autentica, grazie a Nicolò Duodo che lo ottenne da papa Clemente XI insieme a reliquie di altri martiri. Stando agli studi coordinati nei primi anni Ottanta da Vito Terribile Wiel Marin, allora anatomo-patologo dell’università di Padova, il corpo fa parte di un gruppo omogeneo di una stessa popolazione residente a Roma tra il III e il IV secolo d.C., ma non si spinge oltre con le ipotesi. Qualcuno lo vorrebbe il Valentino romano, ma una prova sicura non c’è. Trent’anni fa, infatti, esami al radiocarbonio e del Dna non erano ancora analisi a portata di mano.

Le sorprese non finiscono qui. Perché se ci spostiamo di poco da Monselice e raggiungiamo Este, la storia ci porta in un oratorio fondato nel 1627 dalla Confraternita della morte dove sembra trovarsi un’altra salma di san Valentino. “Il corpo – spiega Bruno Cogo, direttore dell’ufficio Beni culturali della diocesi di Padova – giunge dalle catacombe di santa Ciriaca a Roma nel 1674. L’atto di consegna lo indica genericamente come “Valentino martire”. Nel tempo la tradizione popolare lo associa al Valentino prete romano e lo festeggia il 14 febbraio, ma il vescovo Giuseppe Callegari nel 1887 ne ristabilisce l’originale generica attribuzione di martire. Del corpo ci rimangono il cranio, il torso e parte delle mani”.

Un terzo corpo lo reclama Terni. Tradizione vuole che nel 1605 il Comune finanzi gli scavi per ritrovare il corpo del santo nell’area dove oggi sorge la basilica di san Valentino, a sud della città. La chiesa fu ricostruita nella prima metà del XVII secolo sui resti di una precedente chiesa medievale a sua volta edificata in un’area cimiteriale del IV secolo, probabile sepoltura di pagani.

“Nelle epigrafi cristiane dell’area – spiega Francesco Sforza Barcellona autore di uno studio sull’argomento – non si è trovato alcun riferimento a una sepoltura in loco del Valentino… Eppure le esigenze  del culto … presuppongono l’esistenza … di qualche struttura monumentale”. E il presunto corpo del santo effettivamente viene ritrovato in corrispondenza dell’altare in un sarcofago di piombo. “Il corpo di san Valentino – racconta Emiliano Buccetti, vice-presidente del Centro culturale valentiniano – non è completo, perché nel corso degli anni si fece dono di molte reliquie. Ciò che oggi rimane sono la mandibola, alcuni denti, pezzetti di ossa delle gambe e un sacchettino con le ceneri del santo. Del cranio, un tempo conservato integro, abbiamo solo un frammento restituitoci dopo un furto avvenuto nei primi anni del 2000”.  

Quelle di Monselice, Este e Terni non sono le uniche reliquie esistenti di san Valentino, sparse un po’ in tutta Italia: tra le altre, un cranio si vuole conservato a Roma, nella Chiesa di Santa Maria in Cosmedin, un altro nell’oratorio della SS. Trinità a Sassocorvaro, nelle Marche.

Venirne a capo non è facile specie se si pensa che di santi con lo stesso nome, celebrati in altri giorni dell’anno, ce ne sono sei e ben 19 ne vengono indicati nella Bibliotheca Sanctorum. La tradizione popolare, forse, ha fatto il resto.

Monica Panetto

Cranio attribuito a san Valentino nell’oratorio di San Giorgio a Monselice. Foto di Willy Zangirolami

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