CULTURA

Veronese e il territorio Veneto

Padova non è la città natale di Paolo Caliari, detto il Veronese. Non è nemmeno il teatro principale della sua attività di pittore. Veronese di nascita, appunto, l’artista aveva stabilito la sua bottega a Venezia nel 1553, ma nel frattempo lavorava anche a Padova, dove fu attivo per più di un ventennio – fra gli anni Cinquanta e Settanta circa – grazie soprattutto alla committenza benedettina. L’artista ha lasciato in città testimonianze preziose, soprattutto a Santa Giustina e a Praglia, ma anche in altre sedi religiose, così come in residenze private. Un ventennio padovano di colori luminosi, di luce solare pomeridiana, gialla e calda testimone di accostamenti cromatici arditi e preziosi, di composizioni complesse sottolineate da una spontanea intuizione dei contrasti fra luci e ombre. Un ventennio felice in cui la fama di Veronese crebbe e si radicò, generando un mito persistente nel tempo. 

La mostra che si apre in questi giorni in città,Veronese e Padova. L’artista, la committenza e la sua fortuna, racconta dunque la vicenda e la fortuna padovane del Caliari, la sua opera e quella dei suoi seguaci, creatori di un’eco che non si esaurì negli anni successivi alla morte dell’artista, ma che si protrasse per secoli. Tradotto talora da interpreti brillanti, talvolta invece con esiti dal sapore provinciale, il linguaggio veronesiano attraversò Sei e Settecento nelle tele di Zelotti, Varotari, Damini, Pellegrini, Fasolo, Fumiani, Ricci, Lefèvre; si prolungò nell’Ottocento attraverso le stampe di incisori italiani e stranieri, talvolta uniche testimonianze iconografiche di lavori perduti.

La mostra padovana, che fa parte di un vasto progetto di iniziative legate alla figura di Veronese in Veneto, è dunque fortemente legata al territorio e ai suoi attori - artisti e committenti – che testimoniano una qualità pittorica di livello internazionale. È il Martirio di Santa Giustina, di proprietà dei Musei civici padovani, la gemma della mostra: “Una prova spettacolare, pur nelle piccole dimensioni” la definisce Giovanna Baldissini Molli. È colore artificioso che si sovrappone nelle vesti, nei turbanti, nelle armature, nel drappo blu di una Giustina che, pugnalata al petto, ruota gli occhi al cielo; nello sfondo una carrozza da Cenerentola, architetture improbabili, tridimensionalità annullate e interpretate. Una tela sorprendente, priva dell’ufficialità di altre prove successive sullo stesso tema. 

E poi incuriosisce la vicenda del legame fra la grande tela raffigurante L’ascensione di Cristo e quella degli Undici apostoli,  riunite a Padova dopo quasi quattro secoli. La prima era inizialmente opera esclusivamente del Veronese, ma la sua porzione inferiore, trafugata dopo la morte dell’autore, venne completata nel 1625 dall’interprete veronesiano più autorevole, Pietro Damini di Castelfranco. Del frammento rubato si persero le tracce fino agli anni Sessanta del Novecento, quando venne identificato negli Undici apostoli custodito nella Galleria Nazionale di Praga. È un accostamento paradigmatico quello delle due tele, l’opera del maestro e l’interpretazione – non la copia – della sua pittura da parte di un suo seguace. Gli esiti sono inevitabilmente piuttosto lontani, soprattutto a causa dell’annullamento, da parte del Damini, della costruzione a spirale realizzata invece dal maestro, che “avvita” le figure dal basso a sinistra verso l’alto.

A sinistra: Paolo Caliari detto Paolo Veronese e Pietro Damini, L’Ascensione di Cristo A destra: Paolo Caliari, detto Paolo Veronese, Ascensione (Undici apostoli)

“Nui pittori ci pigliamo licentia che si pigliano i poeti e i matti”, si giustificava Paolo Veronese nel 1573 davanti al tribunale dell’Inquisizione, accusato di poca ortodossia nella raffigurazione dell’Ultima cena. Iniziava in quel momento un cambiamento nella vita, nello stile, nella psicologia dell’artista, che da lì a pochi anni condusse a un passaggio di consegne alla propria bottega e ai suoi diretti eredi: i figli Carletto e Gabriele e il fratello Benedetto, gli Haeredes Pauli. Dagli anni Ottanta la sua pittura era mutata, dimenticando le tinte calde e accese per essere invasa dalle luci fredde e livide del crepuscolo. La sua bottega era fiorente, ma Paolo Caliari morì nel 1588. Emulatori, seguaci, copisti, interpreti rifletterono la sua lezione, perpetuandola.

Chiara Mezzalira

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