SCIENZA E RICERCA

Contrordine compagni: l’ego depletion non esiste

Si chiama “ego depletion”, letteralmente “esaurimento dell’ego”. È nota in psicologia come la teoria che spiega la capacità di autocontrollo degli umani. È stata elaborata una ventina di anni fa da Roy Baumeister e Dianne Tice, una coppia (sposata) di ricercatori dell’americana Case Western Reserve University di Cleveland, nell’Ohio in seguito a un test destinato a diventare famoso come l’esperimento dei biscotti al cioccolato.

Le cose andarono, più o meno, così: Roy e Dianne allestirono il laboratorio più dolce del mondo, pieno zeppo di caldi e profumati biscotti al cioccolato e di altro ben di dio a base di cacao. Poi fecero entrare due gruppi di persone. Il primo fu invitato a onorare la tavola e mangiare a piacimento dolci e cioccolatini. Al secondo fu ordinato di guardare, di resistere alla tentazione del cioccolato e di accontentarsi, per mettere a tacere lo stomaco, di banali ravanelli.

Poi, il cambio di scienza. Entrambi i gruppi sono invitati a risolvere un problema senza soluzione. Ebbene, i componenti del gruppo che aveva mangiato a piacimento il cioccolato hanno resistito 19 minuti, in media, prima di cedere alla frustrazione e di arrendersi. I componenti del secondo gruppo con gli occhi e il naso ancora pieni del dolce alimento ma con lo stomaco pieno di soli ravanelli cedettero alla frustrazione molto prima, in media dopo appena 8 minuti.

Di qui la teoria, che a grana grossa suona così: tutti noi abbiamo un tesoretto di autocontrollo che si rinnova ogni giorno. Chi ha qualche doblone in più, chi in meno. Ma per tutti quel tesoro è esauribile. Se attingi una volta, si svuota in toto o in parte. Se te ne stai tranquillo per l’intera giornata a sera lo hai intatto. Pronto a usarlo, in caso di evenienza. Questa, signori, è la teoria dell’”ego depletion”.

Nel laboratorio più dolce del mondo questo è successo. Quando è entrato, il primo gruppo di persone non ha intaccato la sua dote di autocontrollo perché ha potuto mangiare quello che voleva. Il secondo gruppo ha dovuto attingere al suo tesoretto, prelevando un bel po’ dei dobloni disponibili. Così il primo ha potuto spendere più autocontrollo nel corso del successivo test impossibile, mentre il secondo è giunto presto al completo esaurimento delle risorse psichiche.

La teoria suona bene e sposa anche il senso comune. Il successo per Roy Baumeister che propone la teoria su un’accreditata rivista scientifica è assicurato. In venti anni l’articolo frutta oltre 3.000 citazioni da parte dei suoi colleghi, mentre frotte di ammiratori corrono a comprare i suoi libri dove si insegnano tutti i trucchi per accumulare più dobloni possibili nel quotidiano scrigno dell’autocontrollo.

La reputazione di Roy Baumeister si irrobustisce, se possibile, nel 2010, quando un gruppo di ricercatori guidati da Martin Hagger effettua una meta-analisi su 83 studi che riportano i risultati di 198 diversi esperimenti indipendenti: lo studio conferma la previsione della teoria dell’”ego depletion”. L’anno successivo lo psicologo pubblica insieme a John Tierney un libro che in pochi giorni si afferma come un autentico best-seller: Willpower: Rediscovering the Greatest Human Strength, che potremmo tradurre con La potenza della volontà. Riscoprendo la forza più grande dell’uomo. Oltre ai diritti d’autore, Roy Baumeister si guadagna un assegno di un milione di dollari messo a disposizione dalla Templeton Foundation.

Ma le cose stanno per cambiare, avverte Daniel Engber, un accreditato giornalista scientifico che usa scrivere per Slate, il magazine del New York Times, e per Wired: perché le rivista scientifica Perspectives on Psychological Science, sta per pubblicare un articolo con i risultati di un esperimento analogo a quello realizzato da Roy e dalla moglie Dianne a metà degli anni ’90 del secolo scorso. L’esperimento ha coinvolto oltre 2.000 persone in un paio di dozzine di laboratori indipendenti. Con un risultato unico e sorprendente: non c’è alcuna traccia di tesoretti di autocontrollo e di effetti da “ego depletion”.

Di qui la domanda: com’è possibile che un errore non sia stato riconosciuto in oltre venti anni ripetendo esperimenti estremamente semplici? La risposta a questa domanda rimanda a un titolo proposto in copertina da The Economist che nell’ottobre 2013 fece scalpore: How Science Goes Wrong, come sbaglia la scienza. Molti studi scientifici, soprattutto in campo medico e psicologico (in alcuni casi la percentuale è del 25%) risultano non ripetibili. Che, nella scienza, significa sbagliati. Secondo il Journal of Medical Ethics, in ambito biomedico gli errori in buona fede sono raddoppiati tra il 2004 e il 2009, mentre le frodi scientifiche (un paio sono state scoperte di recente anche in Italia) sono aumentate di sette volte.

Questi dati corroborano la tesi secondo cui gli errori sono più frequenti lì dove gli interessi economici sono più forti. Ma è anche vero che gli errori, anche quelli in assoluta buona fede, non sono affatto sconosciuti a chi si occupa di storia della scienza. Per un paio di millenni gli astronomi greci, arabi ed europei hanno creduto nella teoria geocentrica di Aristotele e Tolomeo. E, più di recente, non è forse vero che il nostro Enrico Fermi ha ottenuto il premio Nobel per l’interpretazione sbagliata di un famoso esperimento effettuato nella vasca dei pesci rossi di via Panisperna a Roma: aveva ottenuto, con i suoi ragazzi, la fissione del nucleo dell’uranio e non se ne era accorto. Non mancano casi di errori più recenti, come quello di “polywater” negli anni ’60 del secolo scorso: ovvero la convinzione che l’acqua potesse polimerizzare. E ci sono stati errori clamorosi e  recentissimi, anche nella fisica più rigorosa e avanzata: come quella delle onde gravitazionali inflazionarie (esperimento BICEP2 in Antartide) o dei neutrini più veloci della luce (esperimento OPERA tra il CERN e il Gran Sasso).

Dunque dobbiamo accettare l’errore in buona fede come parte della fisiologia della scienza e solo la frode come parte della patologia. La ricerca scientifica, infatti, non consiste solo nel cercare “cose assolutamente nuove”, ma anche nel correggere “cose che crediamo vere e non lo sono”.  La scienza non è il luogo delle attività umane dove non si sbaglia mai. E neppure quello dove si sbaglia di meno. Semmai è il luogo dove gli errori, in genere, vengono travati in maniera più sistematica e trasparente, grazie a quella capacità di correggere se stessa che si fonda su un valore che Robert Merton chiamava “scetticismo sistematico”. Non si deve, in linea di principio, credere a nessuno. Ma sottoporre tutto – anche quello che ci appare come certo e consolidato – a verifica. Come ha fatto il gruppo che sta pubblicando su Perspectives on Psychological Science l’articolo che corregge l’errore di Roy Baumeister e Dianne Tice.

Pietro Greco

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