SOCIETÀ
Fine o nuovo inizio per il secolo americano?
Joseph Nye, ex direttore della John F. Kennedy School of Government presso la Harvard University, ha prodotto un nuovo libro, breve, per combattere l’idea che gli Stati Uniti siano in declino e che nuove potenze, forse la Cina, siano pronte a prendere il loro posto. Purtroppo, Fine del secolo americano?, uscito nei giorni scorsi presso il Mulino, è un libro invecchiato rapidamente nei due anni che sono passati tra il momento in cui l’autore ha consegnato il manoscritto all’editore americano e il momento in cui arriva in libreria questa edizione italiana, due mesi prima di un’elezione presidenziale che potrebbe portare alla Casa Bianca Donald Trump.
Intendiamoci: il volumetto è pieno di osservazioni del tutto condivisibili. Per esempio, molti studiosi sostengono che il declino americano sia un declino relativo, non dovuto alla perdita di forza degli Stati Uniti (la cui economia va assai meglio di quelle europee, russa o latinoamericane) quanto alla crescita di alcune potenze emergenti, in primis la Cina. Nye esamina i punti di forza e di debolezza dei “concorrenti” mostrando che nessuna di loro ha i requisiti per svolgere un ruolo mondiale in un futuro prossimo. La Cina, che Nye esamina a lungo, non può aspirare a sostituire gli Stati Uniti come superpotenza malgrado la sua travolgente crescita economica degli ultimi 25 anni (giusto per dare un’idea: nel 2000 l’economia cinese era all’incirca delle stesse dimensioni di quella italiana, ora è sei volte quella del nostro paese). Nye nemmeno crede alla formazione di un sistema bipolare Cina-Stati Uniti in grado di sostituire il bipolarismo Unione Sovietica-Stati Uniti dei tempi della Guerra fredda: la Cina rimane una potenza regionale, ai cui confini stanno nazioni molto legate agli Stati Uniti e ostili a Pechino, come Giappone, Vietnam e India.
Nye mette giustamente in rilievo i punti di forza degli Stati Uniti, in particolare il ruolo positivo svolto dall’immigrazione, che assicura la perdurante vitalità di una società demograficamente giovane, al contrario di quelle europee e giapponese. A suo parere, il sistema di istruzione superiore resta eccellente, e una società libera e competitiva continua a generare sviluppo grazie alle sue grandi risorse morali e intellettuali. I gravi problemi dell’America non sono irrisolvibili e, come scrive Angelo Panebianco nell’introduzione, “Il futuro è aperto”.
Dove il testo di Nye risulta poco convincente è nella parte “Ma potrebbe esserci invece un declino assoluto, anziché relativo, dovuto a cambiamenti della società americana che facciano venire meno i suoi punti di forza?” Qui l’indagine si sposta dalla scena internazionale ai problemi che affliggono il Paese e le sue istituzioni ed è abbastanza sorprendente che l’autore dedichi appena quattro pagine al tema delle istituzioni politiche.
Scrive Nye: “Se è vero che lo stallo partitico è oggi in aumento, importante è capire quanto la situazione sia peggiore che in passato”. Lasciando intendere che, in fondo, non c’è nulla di nuovo, né di irrimediabile, nel gridlock, la paralisi che ha caratterizzato gli ultimi anni, l’autore continua così: “Il 111° Congresso, quello dei primi due anni della presidenza Obama, riuscì ad approvare importanti politiche di stimolo fiscale, la riforma sanitaria, la regolamentazione del sistema finanziario, un trattato sulla proliferazione degli armamenti” oltre a una serie di provvedimenti contro le discriminazioni verso gli omosessuali.
Purtroppo questo elenco pecca alquanto di superficialità: i primi due anni di Obama furono caratterizzati da una situazione del tutto anomala dal punto di vista politico, con un Presidente giovane e popolare e un Congresso dove i democratici avevano larghe maggioranze non solo alla Camera (79 seggi) ma anche al Senato (60 seggi su 100). Non solo: Obama era stato eletto sull’onda del collasso di Lehman Brothers e aveva un “capitale politico” da spendere che gli permise di portare a buon fine le politiche che aveva in programma, sia pure in molti casi fortemente annacquate (in particolare la riforma sanitaria, i cui problemi latenti stanno emergendo adesso).
Dal punto di vista politico, questa congiuntura astrale favorevole cessò bruscamente con le elezioni di metà mandato, nel novembre 2010: i democratici persero ben 64 seggi alla Camera, che passò sotto il controllo dei repubblicani, ben determinati a bloccare qualsiasi iniziativa di Obama. Da allora, il presidente democratico è stato sostanzialmente paralizzato nella sua azione, in particolare dopo la sconfitta del 2014, quando anche la maggioranza del Senato è passata ai repubblicani. Molte iniziative che Obama ha tentato di far passare utilizzando i poteri dell’esecutivo, per esempio nel campo dell’immigrazione, sono state bloccate dai repubblicani oppure dalle corti federali.
Questo lascia gli Stati Uniti con un governo in grado solo di provvedere all’ordinaria amministrazione mentre occorrerebbe una presidenza con una solida maggioranza parlamentare per affrontare problemi drammatici come le esplosive disuguaglianze sociali, la crisi del sistema di istruzione inferiore, le crescenti difficoltà di vaste aree impoverite del Paese, lo stato disastroso delle infrastrutture. Sono questi i temi che hanno creato il fenomeno Trump e che il prossimo presidente dovrà affrontare. Se, come sembra, la Clinton vincerà ma il Congresso resterà in mani repubblicane, altri quattro anni di paralisi sono pressoché garantiti e la crisi sociale diventerà più acuta e, forse, violenta.
Si può quindi essere d’accordo con Nye sul fatto che sotto il profilo della forza militare e della potenza economica gli Stati Uniti siano ancora il Paese che mantiene un forte primato. Ma la loro attrattività culturale, se la crisi politica si aggrava, potrebbe diminuire rapidamente. L’autore sostiene che nessuno dei confronti che si fanno abitualmente con imperi in declino come la Roma dei Cesari e con la Gran Bretagna vittoriana, colgono nel segno. Il docente di Harvard però non sembra dare importanza al fatto che Roma si disgregò a causa delle sue divisioni interne, in sostanza per una prolungata crisi del suo sistema politico. È l’incapacità di decidere tempestivamente ed efficacemente che provoca il collasso di un organismo politico, come è stato dimostrato anche pochi anni fa dalla parabola dell’Unione Sovietica negli anni di Gorbaciov.
Sappiamo che gli Stati Uniti sono capaci di trovare l’uomo giusto al momento giusto e di reagire perfino allo scoppio di una guerra civile come quella iniziata nel 1861 e vittoriosamente conclusa da Abraham Lincoln. E Franklin Roosevelt dimostrò che il Paese era capace di uscire dalla Grande Depressione assai più forte di prima. Ma la fortuna avuta da questi due grandi presidenti sarà all’appuntamento anche con Hillary Clinton? Chi pensa di no forse è semplicemente un realista: la crisi del sistema politico dura ormai da decenni (Bill Clinton fu eletto nel 1992 quando un altro milionario bizzarro, Ross Perot, cercò di farsi interprete del malessere degli americani).
Fabrizio Tonello