SOCIETÀ
La frattura sociale e politica che ha prodotto Trump
Foto: Reuters/Mike Segar
Donald Trump ha vinto perché ha mostrato di saper interpretare le paure e le frustrazioni dei maschi bianchi non laureati, che ne apprezzavano lo stile retorico brutale e le proposte contro gli immigrati, percepiti come responsabili della stagnazione dei salari e delle difficoltà nel trovare buoni posti di lavoro. Martedì c’è stato un forte afflusso alle urne da parte di questo gruppo di elettori, in particolare nelle zone rurali. Molti temevano un risultato deludente della Clinton fra i giovani che sostenevano Bernie Sanders ma non è stato questo, invece, il suo problema: è stato piuttosto la distribuzione dei suoi voti, che sono mancati negli stati in cui “doveva” vincere, come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.
Occorre ricordare che si trattava di un'elezione di secondo grado, decisa dai delegati eletti stato per stato nel cosiddetto collegio elettorale, quindi contava moltissimo la distribuzione dei voti: può accadere, ed era già accaduto tre volte nella storia delle elezioni presidenziali, che il candidato con meno suffragi popolari ottenesse una maggioranza nel collegio elettorale e diventasse presidente. Così accadde a George W. Bush nel 2000 e così sembra che accada anche quest’anno: sulla base dei risultati provvisori sembra che la Clinton abbia raccolto più voti di Trump su scala nazionale. Si pensava che questo meccanismo negli ultimi anni tendesse a favorire i democratici e invece, come nel 2000, ha favorito i repubblicani.
Queste elezioni sono state seguite con attenzione dagli scienziati politici per le novità che facevano emergere nel comportamento elettorale. Per esempio, all’inizio della campagna ci si chiedeva se il fatto che i due candidati sopravvissuti alle primarie fossero entrambi visti negativamente da una maggioranza di americani avrebbe potuto far emergere un terzo partito. La risposta degli elettori è stata che il sistema politico fortemente bipolare regge: i candidati minori hanno raccolto percentuali di consensi non significative.
Trump, un miliardario privo di esperienza politica, ha attuato una "conquista dall'esterno" del partito repubblicano, ma il partito ha retto, nonostante le polemiche, e conservato la maggioranza alla Camera e al Senato.
Un altro tema di queste elezioni era quello del ruolo del denaro nella politica degli Stati Uniti, ma candidati con una grande disponibilità di fondi, come Hillary Clinton, alla fine hanno perso contro un candidato come Trump, che in confronto ha speso assai meno.
Le primarie e i sondaggi avevano registrato il forte impatto del titolo di studio sull'orientamento politico: gli elettori laureati hanno preferito largamente Hillary Clinton, quelli non laureati Donald Trump. Questa polarizzazione nel voto non solo si è mantenuta ma si è rafforzata l'8 novembre. Trump ha violato tutte le regole tradizionali della comunicazione politica, con uno stile fortemente personale, violento, demagogico e questo è stato percepito dagli elettori come un marchio di “autenticità”, un vantaggio per lui. Apparentemente, anche nella comunicazione politica sono cambiate le regole del gioco.
Negli Stati Uniti l'affluenza alle urne è normalmente bassa, raramente supera il 50%. Questa media, però, è il frutto di comportamenti molto diversi tra i gruppi etnici e sociali: i bianchi votano più delle minoranze, i vecchi più dei giovani, i laureati più dei non laureati. L'esito finale, quindi, dipende fortemente da quanto i due partiti riescono a mobilitare i propri sostenitori nei vari segmenti dell'elettorato. Quest’anno sembra che l’affluenza alle urne sia stata superiore al previsto e che entrambi i partiti abbiano fatto il pieno dei propri sostenitori. Hillary Clinton ha avuto un forte sostegno tra le donne, tra i neri e gli ispanici, tra i laureati. Normalmente questo avrebbe dovuto condurla alla vittoria e invece la mobilitazione dell’America rurale ha prodotto la sorpresa.
Fabrizio Tonello