UNIVERSITÀ E SCUOLA
Giovani immigrati più europei degli europei
Segnali confortanti ma contraddittori per l’insegnamento in lingua straniera nelle nostre scuole dell’infanzia. È quanto emerge da un rilevamento del novembre 2014 e pubblicato pochi giorni fa sul sito del Miur: un monitoraggio intrapreso sulla scia delle linee programmatiche del ministro Giannini che invoca una “scuola primaria, o addirittura dell’infanzia, dove i bambini possano apprendere la lingua straniera (l’inglese) grazie alle modalità CLIL, [ovvero] una metodologia di insegnamento di una disciplina non linguistica in lingua straniera”.
L’apprendimento di almeno due lingue straniere oltre alla lingua madre – si ricorda fin dalle prime righe del rapporto – è uno degli obiettivi principali dell’Unione europea. Il percorso italiano verso l’obiettivo passa attraverso le Indicazioni nazionali 2012 per il curricolo della scuola d’infanzia e del primo ciclo di istruzione dove si stabilisce che i bambini “possono familiarizzare con una seconda lingua”; la legge 128/2013 affina poi il concetto “promuovendo il plurilinguismo attraverso l’acquisizione dei primi elementi della lingua inglese”.
Alla tendenza normativa fa eco la pratica quotidiana, iniziata ancora prima delle formulazioni del legislatore. Il rapporto indica che l’84,8% delle scuole oggetto del monitoraggio ha attivato forme di insegnamento della lingua straniera; tra queste 1.430 propongono l’inglese, 24 il francese, 12 lo spagnolo, 7 il tedesco, 8 l’arabo e 1 il cinese. Alle attività di insegnamento si affiancano spesso le attività di sensibilizzazione alla lingua straniera, presenti nel 53,4% delle scuole.
Questi sono dati sicuramente positivi, pur con gli ovvi limiti rappresentativi del campione di rispondenti all’indagine, considerando che le scuole dell’infanzia che hanno risposto sono state 1.740 statali, di cui 1.425 statali su un totale di 5.145, e solo 315 paritarie su quasi 10.000 sedi, talvolta piccolissime. Altrettanto positiva sembra nel complesso la qualificazione dei docenti, scelti a metà tra i docenti di riferimento interni all’istituto (49,4%) e docenti esterni, contrattualizzati o volontari. Oltre 80% (tra interni ed esterni) sono docenti non madrelingua, tutti con una qualificazione per l’insegnamento della lingua straniera nelle scuole primarie e dell’infanzia, che si tratti di vera e propria abilitazione, di certificazioni linguistiche o di titoli di studio che prevedono il superamento di una prova d’inglese. Con percentuali variabili tra statali e paritarie, e tra docenti che si occupano di insegnamento o sensibilizzazione, la maggior parte dichiara un livello linguistico B1 o B2, oltre il 20% dichiara un livello superiore (C1-C2), ma circa un quarto possiede solo un livello A2.
Accanto alle luci, il rapporto mette in evidenza anche le ombre, come nel caso degli approcci didattici adottati. Accanto all’elenco dei format più diffusi (come ad esempio Hocus & Lotus, sviluppato da La Sapienza di Roma), è il rapporto stesso a segnalare l’incongruenza di un buon 30,1% di docenti che dichiarano di non seguire alcun approccio, pur dichiarandosi qualificati all’insegnamento della lingua e quindi teoricamente consapevoli dell’importanza delle scelte didattiche. Margini di riflessione ci sono anche sulla frequenza degli interventi: le “lezioni” hanno una durata media superiore ai 30 minuti e si tengono per lo più (62,5%) una volta a settimana, oppure due volte al mese (9.8%) o, in percentuali irrilevanti, perfino un volta al mese o ogni due mesi. In quasi metà dei casi l’insegnamento è attivato a partire dai cinque anni di età.
Nonostante la buona volontà di istituti e insegnanti, i nostri bambini insomma non rischiano certo di diventare bilingui. Diverso è il caso, si nota, dei figli di immigrati, già normalmente immersi in un contesto di autentico bilinguismo quotidiano (lingua della famiglia d’origine e italiano come lingua di istruzione), ed esposti in questo modo anche a una terza lingua già dall’asilo: una situazione che riguarda quasi il 10% dei bambini iscritti alla scuola dell’infanzia. Se davvero l’obiettivo Ue è il trilinguismo, paradossalmente i giovani immigrati si riveleranno più europei degli europei – o almeno più dei loro coetanei italiani.
C.G.