SOCIETÀ

Jihadisti d'Italia, il nostro Paese ha ancora gli anticorpi?

Così come L'ultima utopia: gli jihadisti europei (Guerini e Associati, 2015) era anche un'indagine sulla società francese, l'ultimo libro di Renzo Guolo (Jihadisti d'Italia – la radicalizzazione islamista nel nostro paese, uscito il 23 maggio per Guerini e Associati, € 17,50, 157 pp.) ci ricorda che il fenomeno del jihadismo, oltre a interessare la sfera della sicurezza, è rivelatore delle dinamiche in corso nella società italiana, parla delle sue fratture, e di come stiamo rispondendo all'immigrazione, all'integrazione e alla globalizzazione.

Le nostre società sono diventate multiculturali, multireligiose. La percezione della discriminazione è diventata un elemento fondamentale: xenofobia e islamofobia possono essere un volano che attiva la decisione di contrapporsi alla cultura e ai valori esistenti”, spiega l'autore in un'intervista rilasciata a Il Bo Live.

I fenomeni di radicalizzazione si sviluppano nel nostro paese in situazioni diversificate dal punto di vista professionale, sociale e di genere, così come sono diversi i fattori che inducono alla radicalizzazione. È pertanto difficile identificare un profilo sociologico tipo dei radicalizzati italiani. Sono immigrati di prima o di seconda generazione, uomini e donne, autoctoni deislamizzati che riscoprono l'Islam in chiave politica o neofiti convertiti, persone che provengono da fasce sociali non necessariamente marginali o che non riescono a integrarsi.

Il denominatore comune è la fascia d'età: sono giovani compresi tra i diciotto e i trent’anni che abbracciano l'Islam nella versione ideologica, antagonista, radicale.

Intervista a Renzo Guolo, autore di "Jihadisti d'Italia - La radicalizzazione islamista nel nostro Paese"

Ormai è noto che i processi di radicalizzazione avvengano maggiormente fuori dalla moschea: come spiegato da Renzo Guolo, i luoghi in cui i processi di radicalizzazione maturano sono innanzitutto la rete, che alimenta flussi ideologici un tempo molto più circoscritti, e poi le carceri, dove la religione viene vissuta come ricerca di senso che risponde alla privazione della libertà e al fallimento di un percorso di vita. Nonostante ciò, nel dibattito pubblico la questione viene spesso semplificata e ridotta al tema delle moschee, ovvero se sia o meno opportuno erigere luoghi di culto per le comunità musulmane. “La libertà di culto è una libertà costituzionale garantita per tutti. Il problema non sono le moschee in quanto tali, ma chi le controlla in una religione tipicamente senza centro, senza autorità costituita comunemente riconosciuta, come è l'Islam. I musulmani sono ormai una componente stabile della società italiana. È impensabile comprimere la loro libertà religiosa. Serve, piuttosto, elaborare un quadro legislativo e normativo che consenta una maggiore trasparenza rispetto a quanto avviene nei luoghi di culto”. Se però questa regolamentazione dovesse diventare un pretesto per limitare il diritto di culto o per chiudere i luoghi di preghiera, i processi di radicalizzazione potrebbero intensificarsi: per reazione antagonista prima ancora che per condivisione ideologica. “Tutti i grandi paesi europei cercano di non confondere libertà religiosa e lotta al terrorismo. Sovrapporle rischia di favorire il proselitismo radicale”.

Soprattutto tra le seconde generazioni sono in corso processi di radicalizzazione molto simili a quelli che avvengono in Francia e Gran Bretagna Renzo Guolo

La popolazione musulmana in Italia è consistente: oltre i 2 milioni di persone tra residenti e cittadini, naturalizzati o convertiti. Sono cifre vicine a quelle di altri grandi paesi europei, che hanno però avuto un numero maggiore di jihadisti interni o di foreign fighters. Ci sono solo 129 foreign fighters italiani, “da intendersi come sociologicamente italiani, ovvero cittadini italiani che magari si sono convertiti, residenti, o persone di seconda generazione che non hanno ancora la cittadinanza italiana ma che hanno fatto dei percorsi scolastici all'interno delle istituzioni italiane o che vivono da lungo tempo in Italia”. Rispetto agli altri paesi europei, Renzo Guolo parla di un “ritardo italiano”, positivo per una volta, sul fronte della radicalizzazione. Le cause di questo specifico “ritardo italiano” vengono identificate in due elementi principali: il primo è un ciclo migratorio relativamente recente. “L'immigrazione in Italia è avvenuta più tardi che negli altri paesi europei. Le fasce giovanili sono demograficamente più ristrette che in altre realtà europee ed è assodato che siano proprio certe classi d'età quelle più sensibili alle sirene radicali".

Il secondo elemento è dato dalla frammentazione e dal pluralismo etnoreligioso della comunità islamica nel nostro Paese. “In Italia l'associazionismo islamico è molto frammentato e caratterizzato da una diversificazione etnica che favorisce, almeno in una prima fase, la separazione tra comunità. Le dimensioni etniche legate alla cultura e alle usanze, più che alla comune religione, fanno da freno agli elementi transnazionali, e quindi anche alla penetrazione dell'ideologia dell'Islam radicale globalista e appunto transnazionale".

Ma simili fattori non ci proteggeranno per sempre. “I casi esaminati nel libro mostrano che, soprattutto tra le seconde generazioni, sono in corso processi di radicalizzazione molto simili a quelli che avvengono in Francia e Gran Bretagna. Il "ritardo" provocato da cause demografiche, religiose, politiche, oltre che dalle tecniche di contrasto, potrebbe essere colmato nei prossimi 3-5 anni. Con tutte le conseguenze del caso”. Da qui la necessità che oltre alla prevenzione sul terreno della sicurezza, si faccia prevenzione culturale: nella scuola e coinvolgendo l'associazionismo islamico sul terreno della "battaglia delle idee" contro le derive radicali.

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