SOCIETÀ

L'altra guerra della Siria

Nel 2011 le donne furono protagoniste delle “primavere arabe”, scendendo in piazza al fianco degli uomini contro i regimi dittatoriali in Medio Oriente e nel Nord Africa. Non solo per la libertà e la democrazia, ma anche per chiedere pari opportunità dopo secoli di oppressione. A cinque anni di distanza però per le donne la situazione è addirittura peggiorata: in particolare in Siria, dove nel conflitto tra il regime di Bashar al-Assad da una parte e Al Qaeda e Isis dall’altra l’opposizione laica è sempre più isolata. E a farne le spese sono state le donne: non solo perché a causa delle fazioni islamiste radicali, che teorizzano la loro completa sottomissione, ma anche perché con la guerra tornano naturalmente in auge nella società il militarismo e il maschilismo.

“All’inizio anche noi femministe abbiamo manifestato contro Assad – racconta Lama Kannout della Syrian Feminist Lobby –; poi però ci siamo ritrovate progressivamente emarginate in seguito all’atroce repressione del regime, incoraggiata dalle divisioni in seno al Consiglio di sicurezza ONU e dal senso di impunità che ne derivava”. Kannout si è incontrata a Padova insieme con attiviste e studiose di tutta Europa in occasione del convegno organizzato dal Centro interdipartimentale di Ricerca e studi di genere dell’università di Padova e l’Euromed Feminist Initiative IFE-EFI. Oggetto della giornata di studio il processo di transizione in Siria, da ripensare secondo i partecipanti in un’ottica femminista e di genere. “Oggi nelle zone di guerra le donne sono vittime di violenze, stupri e matrimoni forzati. Sono cacciate dalle loro case ma al tempo stesso si cerca di impedirgli di espatriare – continua Kannout –; la loro voce è costantemente soffocata dalla violenza e dalla discriminazione”. E dopo l’intervento di Putin, le cose sono tutt’altro migliorate: “Sulle nostre teste sono in corso negoziati tra americani e russi, di cui noi siriani non sappiamo assolutamente nulla” spiega Joumana Seif del Syrian Women Network.

“È comunque una grossa bugia che il regime di Assad fosse laico e favorevole alle donne – chiarisce Maya Al Rhabi, responsabile del Women’s Studies Center Damascus e General Coordinator of Syrian Women for Democracy –; già prima della rivoluzione noi attiviste laiche e femministe eravamo costantemente perseguitate dalla polizia”. Quella di Maya è una storia comune a quella di molti oppositori: “Per otto anni mi è stato impedito di espatriare; poi, nel 2014, mi hanno costretta a lasciare il Paese”. Così come le altre attiviste, al Rahbi non indossa il velo e veste normalmente gli abiti occidentali: una cosa oggi inimmaginabile nei territori controllati dai fondamentalisti: “Vero, ma il processo di islamizzazione era già iniziato sotto il regime di Assad. Molte donne erano già tornate a velarsi: a noi femministe non era permesso di farci conoscere e di lavorare con le altre donne, mentre la dittatura proteggeva sistematicamente i fanatici religiosi. E la costituzione e le leggi erano già ampiamente discriminatorie nei confronti delle donne e dei non musulmani”. Adesso che però il conflitto è tra Assad e fondamentalisti islamici? “Che scelta è una tra male e il peggio? Anche nel 2003 agli iracheni chiesero di scegliere tra Saddam e gli americani. Noi femministe continueremo a batterci per una Siria davvero democratica, laica e paritaria. Senz’armi, perché siamo pacifiste”.

L’idea di base emersa durante il convegno è che qualunque strada verso la sicurezza e la pace in Siria non può prescindere da un coinvolgimento delle donne. Un obiettivo tutt’altro che facile perché i mutati equilibri tra i sessi tendono normalmente a trasferirsi dalla fase di conflitto al processo di transizione: “Di solito anche i negoziati di pace sono plasmati da uomini sulla base delle loro esigenze – spiega Lilian Halls-French, co-presidente dell’IFE-EFI –. Le donne, quando ci sono, sono poche e si occupano esclusivamente di tematiche femminili”. Il problema è quindi riuscire già adesso a coinvolgere le donne in un ruolo attivo: “Il problema della parità tra i generi dovrebbe essere già posto fin dalla discussione della nuova costituzione – spiega Sara Pennicino, ricercatrice di diritto pubblico comparato e docente di Constitutional Development And Democratisation –; di solito però le donne sono escluse dai processi post-conflitto”. Eppure ci sarebbero strumenti, anche internazionali, per spingere le parti a un maggiore coinvolgimento: già dal 2000 la risoluzione 1325 su “Donne, Pace e Sicurezza”, approvata all'unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU imporrebbe agli stati di “assicurare una rappresentanza crescente delle donne a tutti i livelli decisionali nelle istituzioni nazionali, regionali e internazionali e nei meccanismi per la prevenzione, la gestione e la risoluzione dei conflitti”.

Una norma che però rischia di rimanere lettera morta ancora per lunghi anni, come ad esempio è accaduto nei conflitti della ex Jugoslavia. Non ditelo però a queste donne: “Senza di noi non ci sarebbe stata la rivoluzione siriana – conclude Mariam Jalabi del Syrian Coalition Office dell’ONU – per questo il futuro della Siria non può prescindere dal concetto dell’uguaglianza di genere”.

Daniele Mont D’Arpizio

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