UNIVERSITÀ E SCUOLA
L'archeologia e l'alleato che non ti aspetti: la geofisica
Foto: Roberto Caccuri/contrasto
È recente la conferma del ritrovamento del teatro romano di Aquileia a seguito degli scavi diretti da Andrea Ghiotto del dipartimento dei Beni culturali dell’università di Padova, per i quali unitamente alle tradizionali operazioni di scavo sono state utilizzate tecniche di indagine non invasiva, meglio note come prospezioni geofisiche, condotte da Rita Deiana dello stesso dipartimento. L’utilizzo di queste tecniche ha consentito di delineare le zone di interesse e di individuare i punti su cui effettuare in modo puntuale mirati saggi di scavo. Queste tecniche non distruttive consentono infatti di conoscere a priori la posizione di corpi anomali rispetto all’ambiente ospitante, che in archeologia corrispondono in genere ai reperti.
Varie sono le tecniche applicabili in campo archeologico e queste vanno dal georadar, alle indagini magnetometriche, a quelle geoelettriche e ai metodi elettromagnetici, solo per citare le più note. Queste tecniche ormai da diversi decenni vengono mutuate dalle applicazioni geofisiche in campo geologico-ambientale e supportano l’attività dell’archeologo, grazie ad indagini preliminari o allo stesso tempo integrative allo scavo che consentono di circoscrivere le aree di interesse, garantendo in questo modo un notevole risparmio in termini di risorse, sia economiche che di tempo.
Ma in cosa consistono queste tecniche? In pratica ognuna si basa sull’utilizzo di una specifica strumentazione, con la quale è possibile individuare variazioni di determinati parametri fisici, propri dei diversi materiali: in questo modo è possibile evidenziare anomalie nel sistema indagato in corrispondenza di reperti sepolti quali tombe, muri, sepolture, cisterne, più in generale resti di strutture di origine antropica sepolti nel sottosuolo e non altrimenti individuabili se non con lo scavo. Per esempio se si immette una corrente elettrica nel sottosuolo, questa circolerà in modo differente a seconda delle percentuali d’acqua o di materiali naturalmente conduttori presenti nel sistema indagato, consentendo di distinguere quelli più conduttivi da quelli che invece oppongono una maggiore resistenza al passaggio della corrente. Su questo principio si basa il metodo geoelettrico. La scelta della tecnica da utilizzare, di volta in volta è condizionata da numerosi fattori, tra i quali principalmente la tipologia del reperto, la sua presunta dimensione, l’ambiente ospitante e la logistica in cui si opera. Ogni metodo è in grado di mettere in luce alcune di queste caratteristiche, pertanto spesso la combinazione di diversi metodi si rivela la strategia vincente per individuare in modo corretto l’elemento di interesse.
Lo scavo è un’operazione lunga, complessa e costosa, che modifica in modo permanente il sottosuolo dopo la sua realizzazione, pertanto la possibilità di raccogliere informazioni a priori in modo assolutamente non distruttivo sulle zone da scavare si rivela una risorsa preziosissima per l’archeologo. Se poi si pensa che questo può consentire di delineare le forme di interi centri urbani sepolti e restituire una “fotografia” di quanto è conservato sotto i nostri piedi anche senza scavare, è subito chiara anche la potenzialità di queste tecniche per la “fruizione” e la salvaguardia del patrimonio sepolto.
Il dipartimento dei Beni culturali dell’ateneo non è nuovo ad applicazioni in questo settore, dal momento che il fortunato connubio geofisica-archeologia sta portando importanti risultati, tra i quali il più recente è sì il ritrovamento del teatro romano di Aquileia, ma sono quasi contestuali anche l’ampliamento dello scavo della Domus delle Bestie Ferite sempre ad Aquileia e il ritrovamento e lo scavo della necropoli punica nell’area dell’ex-Marina Militare a Nora in Sardegna.
Fattore comune ai tre diversi siti appena citati è stato l’utilizzo di un sistema georadar di ultima generazione, dotato di una coppia di antenne con diversa frequenza che lavorando simultaneamente consentono al geofisico di acquisire contemporaneamente informazioni più dettagliate circa la posizione e l’estensione dei reperti di interesse.
Questa strumentazione è stata acquisita grazie al cofinanziamento dell’università di Padova che nel 2013 ha contribuito al suo acquisto. Il georadar viene utilizzato da allora molto spesso in contesti archeologici sia in ambiente urbano che in ambiente extra-urbano e molti padovani hanno sicuramente potuto assistere a campagne di misura georadar fatte in città al Duomo, nella chiesa degli Eremitani, negli spazi aperti nell’area attorno al Liviano alla ricerca dei resti della Reggia dei Carraresi, nell’arena romana, incuriositi da quella specie di “tosaerba” che viene spinto anche sull’asfalto e che è in grado di “vedere” nel sottosuolo.
Molto ancora però resta da fare per sensibilizzare all’uso di queste tecniche nel modo corretto. Se da un lato infatti l’ateneo di Padova sta investendo sempre di più sull’utilizzo dei metodi geofisici per l’archeologia e sull’insegnamento all’uso consapevole di queste tecniche in questo settore, nel panorama nazionale e in parte anche quello internazionale purtroppo si registra ancora un limitato uso ed una scarsa conoscenza delle reali potenzialità di queste metodologie in questo specifico campo. L’auspicio è quindi che il ritrovamento del teatro romano di Aquileia e degli altri siti archeologici in cui il dipartimento dei Beni culturali sta operando, mettendo in campo le tecniche geofisiche, possano far diventare l’università di Padova un esempio da imitare per le applicazioni della geofisica in campo archeologico.
R.D.