UNIVERSITÀ E SCUOLA

Laurea, quel flebile e tardivo rito di passaggio

Decine di film, se non l'esperienza diretta, ci hanno mostrato quanto sia diversa la cerimonia di laurea nei paesi anglosassoni da quella che, stagione dopo stagione, si ripete nelle aule delle nostre università. 

Visto con l'occhio dell'antropologo britannico o statunitense, il rituale italiano può apparire bizzarro. La contegnosa discussione della tesi (inclusi gli sbadigli dei commissari non coinvolti nella procedura) è seguita da un silenzio elettrico in attesa del voto di laurea e, appena proclamato l'esito, dal rumoroso tripudio di parenti e amici. Raffica di selfies e tutti via di corsa verso un bar delle vicinanze dove brindare al neolaureato o alla neolaureata, coronato/a da un serto d'alloro fatto in casa. Insieme atto burocratico e festicciola di famiglia, la cerimonia italiana si svolge nel segno dell'individualità. Gli altri laureandi sono figure sul fondo, simili alle persone sedute accanto a noi nella sala d'aspetto di un medico o all'ufficio postale. Ogni candidato fa storia a sé e la celebrazione è soltanto sua, logica conclusione di un percorso cominciato tanti anni prima sui banchi delle elementari.  

Collettiva e proiettata verso il futuro è invece l'impostazione del graduation day e in particolare della cerimonia di laurea, negli Usa il commencement, già dal nome a indicare che la fine degli studi coincide con l'avvio di una nuova fase. Qui non c'è suspence, visto che gli (ex) studenti conoscono il risultato ottenuto. Non ci sono i vestiti della festa, invisibili sotto la toga che accomuna ragazze e ragazzi riuniti in un gruppo ben distinto da quello dei familiari. Non ci sono spazi per sfoggi personali: il cerimoniale è rapido, una stretta di mano, la consegna del diploma, e avanti il prossimo. 

Quanto ai discorsi, ce n'è di fatto uno solo, il commencement speech, viatico che l'università, per bocca di un personaggio famoso, consegna ai graduates prima che si avventurino per le strade del mondo. Momento rilevante per almeno due motivi: perché la notorietà dell'oratore avrà un effetto di riverbero sulla cerimonia, rendendola a volte memorabile, e perché – scrive un esperto della materia, Anthony Trendl – la struttura del commencement speech è libera e consente a chi lo tiene di esprimere (sinteticamente) la propria visione della vita trasmettendola ai giovani che ha davanti. Come attestano i siti Graduation Wisdom e The Best Commencement Speeches, Ever, le variazioni sono infinite.  Si potrà, come Steve Jobs nella sua celebre prolusione (“Stay hungry, stay foolish”) ai neolaureati di Stanford, classe 2005, ricordare a ragazzi poco più che ventenni che “la morte è la destinazione che tutti condividiamo” oppure, sul modello del ranocchio Kermit (sì, quello dei Muppets), invitato al Southampton College nel 1996, sarà possibile ringraziare i neolaureati per gli sforzi che vorranno dedicare alla difesa dell'ambiente. 

L'essenziale è che le parole pronunciate siano di ispirazione per chi, proprio quel giorno, gira una pagina importante della propria vita. Anzi, secondo Kurt Vonnegut, che fu fino a poco prima della morte, nel 2007, un richiestissimo oratore negli atenei americani, la cerimonia di laurea è qualcosa di più: un vero rito di passaggio - flebile e tardivo, forse - ma uno dei pochi rimasti in un tempo e in un'area geografica dove l'approdo all'età adulta sembra arretrare all'infinito. 

In Quando siete felici, fateci caso, una raccolta di nove discorsi, per lo più di commencement, tenuti fra il 1978 e il 2004, che minimum fax ha pubblicato di recente (traduzione di Martina Testa, pp. 112, euro 13), lo scrittore lo ripete in più occasioni: “Mi prendo io la responsabilità di dichiarare questi giovani che si laureano oggi uomini e donne. Nessuno deve più trattarli come bambini, e loro non devono più comportarsi come bambini – mai più”, dice al Freedonia College nel '78. E oltre vent'anni dopo, nel '99, alle neolaureate dell'Agnes Scott College di Decatur in Georgia: “Questo è, con notevole ritardo, un rito di passaggio all'età adulta. Finalmente siete in via ufficiale donne mature... Mi dispiace da morire che ci siano voluti tanto tempo e tanti soldi prima di potervi dare una buona volta la patente di adulte”. 

Strana ossessione, all'apparenza, per uno che non ebbe nessun graduation day perché non si laureò mai e che il rito di passaggio, insieme a tanti della sua generazione, lo affrontò con la guerra. Ma è proprio l'orrore della guerra – di cui, come ha scritto giorni fa Goffredo Fofi, Vonnegut ha saputo mostrare in Mattatoio 5 “l'imbecillità che ne è la matrice” – a spiegare l'insistenza con cui lo scrittore ribadisce la necessità di tracciare linee nette, riconoscibili, fra l'adolescenza e la maturità: “Avanzo l'ipotesi – è ancora il discorso al Freedonia College – che privare i giovani maschi di un rito di passaggio all'età adulta nella nostra società attuale sia un espediente, ideato in maniera astuta ma inconscia, per rendere quei maschi ansiosi di andare in guerra”.  

Se “un benvenuto memorabile ai diritti e ai doveri dell'umanità”, come lo definisce in un'altra occasione Vonnegut, sia davvero un antidoto efficace contro la guerra, è da vedere. Ma com'è bello sentire qualcuno che ha il coraggio di affermare, davanti a un pubblico di giovani,  che è necessario lasciarsi alle spalle l'infanzia per crescere e diventare adulti! Il tutto senza nessuna seriosità, mescolando tranquillamente nella stessa frase battute di spirito e infinita tristezza (“Sto facendo lo scemo in questo modo perché provo molta pena per voi, provo molta pena per tutti noi”). Del resto “Vonnegut – scrive nella nota introduttiva il curatore della raccolta, Dan Wakefield – non era il tipo da dispensare ricettine da quattro soldi per il successo istantaneo o banalità buoniste ai giovani che gli chiedevano consiglio”. 

Senza ripetere mai lo stesso discorso, calando ogni volta le sue parole nel clima del momento, lo scrittore batte e ribatte sulle questioni che gli stanno a cuore: l'importanza dello studio e soprattutto di un insegnante che renda i suoi allievi “più entusiasti e fieri di essere al mondo di essere al mondo”; i rischi di corruzione e di violenza insiti nel potere (“gli esseri umani sono scimpanzé che quando si ubriacano di potere perdono il controllo”); la nascosta grandezza dei luoghi periferici, come il Midwest da cui lui stesso, nativo di Indianapolis, era nato e cresciuto, “quella che la gente dello spettacolo chiama flyover country, la parte del paese che si sorvola soltanto” (“ehi voi, babbei catodici strapagati da fare schifo: guardate che è 'quaggiù' che si vive la vita reale, è 'quaggiù' che si vive sul serio”); il piacere di cogliere i momenti più belli della vita, come gli aveva insegnato suo zio Alex che d'estate, bevendo una limonata all'ombra di un melo, “interrompeva la conversazione per dire 'Cosa c'è più bello di tutto questo?'”. E infine, sopra ogni altra cosa, la necessità di trattare se stessi e gli altri con “decenza, onestà e correttezza”. 

“Di regola ne conosco una sola: bisogna essere buoni, cazzo”. Puro Vonnegut, ma come dirlo meglio, ai neolaureati e non solo a loro?

Maria Teresa Carbone

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