SOCIETÀ

Lavori del futuro: valletto, cameriera, maggiordomo

Per gli indaffarati programmatori della Silicon Valley, che passano giorno e notte incollati agli schermi dei propri computer e, per questo, sono remunerati generosamente dalle start-up che li impiegano, c’è TaskRabbitt. Questa app consente loro di subappaltare ad altri lavoratori, meno oberati e assai peggio retribuiti, tutte quelle mansioni di cui non hanno il tempo di occuparsi personalmente, inclusi il pagamento delle bollette che si accumulano sulla credenza e l’assemblaggio delle scaffalature Billy dell’Ikea. Per i lobbisti di Washington, impegnati dieci ore al giorno ad ammaliare i rappresentanti del Congresso e dell’amministrazione in cambio di lauti guadagni, ci sono file di dog sitter pronti a far fare la passeggiata serale ai loro trascurati amici a quattro zampe, barboncini o pitbull che siano. E per i broker newyorchesi c’è un esercito di tate trilingui e di insegnanti privati di violino e balletto a cui viene delegata la responsabilità di educarne i figli mentre i loro genitori sono in ufficio 100 ore alla settimana a riempirsi le tasche tra un deal e l’altro. 

In tutti gli Stati Uniti, insomma, sono in continua crescita il numero e il genere di occupazioni pensate per facilitare la vita quotidiana degli americani più ricchi. I quali sono talmente presi dai propri obblighi professionali che spesso non riescono più nemmeno a tenere aggiornato il proprio guardaroba, e finiscono quindi per affidarsi ai servizi di un personal shopper, o – ancora - non hanno il tempo di fare la spesa e cucinare, ma non per questo vogliono rinunciare a mangiare alimenti sani e gustosi, e quindi si fanno consegnare a casa deliziosi pasti preparati ad hoc per loro, con ingredienti rigorosamente locali e biologici, da chef professionisti

In questo contesto, si comincia a parlare quindi dell’emergere di una nuova “servant economy”, una reinterpretazione in chiave contemporanea, e digitale, della ben consolidata tradizione di una moltitudine di servi che si prendono cura di una manciata di padroni. E se dietro a questa realtà stanno sconvolgimenti epocali, come la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica, almeno negli Stati Uniti ne è responsabile anche il fallimento della politica e del welfare. “In giro per il mondo ci sono tanti esempi di risposte più o meno efficaci alla crescita della disuguaglianza e noi abbiamo molto da imparare – dice Karla Walter, direttore associato dell’American Worker Project presso American Progress, un centro di ricerca di Washington – Il fatto è che la nostra voce collettiva è particolarmente debole, che le nostre leggi sul lavoro non sono più state aggiornate per sanzionare i datori di lavoro che le violano e garantire ai dipendenti il diritto di contrattare le proprie condizioni lavorative, e queste sono tutte cose che contribuiscono all’aumento della disuguaglianza”.

E, infatti, i dati che riguardano gli Stati Uniti parlano da soli. Oggi, le 160.000 famiglie che occupano lo 0,1% al top della piramide socio-economica del paese controllano il 22% della ricchezza nazionale complessiva, un dato che si era registrato per l’ultima volta nel 1929, prima della grande crisi. Si tratta della stessa fetta di prosperità che si deve spartire, dal lato opposto dello spettro economico, il 90% di americani. Una disparità che continua ad aumentare grazie sia al fatto che questa ricchezza viene passata di generazione in generazione all’interno delle stesse famiglie, sia alla tendenza che vede i redditi dell’1% al top crescere più rapidamente di quelli della classe media (tra il 1986 e il 2012 i primi sono cresciuti del 3,4% e i secondi solo dello 0,7%).

Esiste però anche un secondo, assai meno discusso, fattore che sta contribuendo allo sviluppo di queste nuove forme di servitù. Se qualche decennio fa erano i colletti blu, incatenati alle catene di montaggio, ad avere poco tempo libero, mentre i colletti bianchi se la prendevano comoda con la pausa pranzo e uscivano presto dall’ufficio, oggi questa relazione si è invertita. Uno studio di Mark Aguiar della Princeton University ed Erik Hurst della University of Chicago ha calcolato che, negli Stati Uniti, il tempo libero degli uomini senza un diploma di scuola superiore è aumentato di quasi otto ore tra il 1985 e il 2005. Quello dei colleghi laureati, nel frattempo, si è ridotto di sei ore, ritornando sui livelli di prima del 1965. 

È nello spazio tra il primo di questi fenomeni, con gli americani benestanti che guadagnano sempre di più e i poveri sempre di meno, e il secondo, con i professionisti che sono sempre al lavoro e i lavoratori che hanno sempre di meno da fare, che si sviluppa l’economia dei "servizi per ricchi". Va detto che alcuni degli impieghi che si sono venuti così a creare possono essere redditizi. A New York una babysitter può arrivare a guadagnare anche 2.000 dollari la settimana, quando è impiegata in una famiglia che ne richiede i servizi 24 al giorno; un personal trainer, che guida i clienti abbienti in palestra, incassa anche 60.000 dollari l’anno; e un barista ne mette assieme tra i 50.000 e i 70.000, con picchi di 100.000. Ma si tratta ovviamente di eccezioni. La maggior parte degli americani occupati nel settore dei servizi porta a casa molto, ma molto meno. Nel 2012, la metà degli appartenenti a queste categorie di lavoratori aveva un reddito annuo inferiore ai 20.000 dollari (un lavoratore ipotetico, impiegato a tempo pieno al salario orario minimo federale di 7,25 dollari l’ora, guadagna 15.080 dollari all’anno).

Non c’è dubbio che le grandi trasformazioni che stanno attraversando il mondo di oggi, e che contribuiscono alla sempre più iniqua distribuzione della ricchezza, siano difficili da contrastare a livello di singoli paesi. Non bisogna però perdere di vista il fatto che qualcosa si può fare per evitare che la situazione peggiori ancora. “Non è una legge di natura che i lavori nel settore del servizi debbano essere pagati male – dice Walter - Basta guardare alla differenza di salario tra un dipendente di McDonald’s negli Stati Uniti e un suo collega in Danimarca”. Mentre in America i lavoratori di fast food guadagnano in media 8,90 dollari l’ora, in Danimarca prendono un minimo di 20 dollari (e i giorni di malattia pagati). “Penso esistano politiche pubbliche che si possono attuare per ridurre la disuguaglianza – continua Walter – Dopo la Grande Depressione, abbiamo istituito una serie di norme per proteggere i diritti dei lavoratori e fare sì che la prosperità del Paese fosse condivisa da tutti, ma oggi quelle norme stanno perdendo forza”. 

Allora non fu solo il governo americano, anche grazie alla pressione esercitata dai sindacati, ad agire in difesa dei lavoratori. Gli stessi datori di lavoro, o perlomeno quelli più all’avanguardia, capirono che una forza lavoro meglio retribuita faceva bene anche alle casse delle aziende. L’esempio più spesso citato è naturalmente quello della Ford. “Un posto in una fabbrica Ford era tutt’altro che invidiabile – dice Walter – Fino a quando Henry Ford decise di pagare i propri dipendenti abbastanza da permettere loro di acquistare una delle vetture che assemblavano”. Di imprenditori del genere, oggi, ne esistono pochi (anche se quelli che ci sono stanno facendo tutti molto bene dal punto di vista dei profitti). Pressati da precarietà e salari in netto calo dopo la recente crisi, gli americani che non trovano lavoro in una di queste aziende finiscono quindi sempre più spesso per rassegnarsi, almeno per il momento, a portare al lavasecco le camicie dei cardiologi o passare in farmacia a comprare le pillole per l’alta pressione dei grandi avvocati. Certo, non è il massimo per un paese che si rappresenta come la terra delle opportunità, ma per invertire la tendenza occorrerebbero politiche pubbliche efficaci. Misure che, con le attuali maggioranze al Congresso, sembrano difficilmente attuabili.

Valentina Pasquali

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