SCIENZA E RICERCA

Mille anni di resistenza agli antibiotici

Antibiotics: Handle with Care. Antibiotici: maneggiare con cura. È chiaro, nella sua semplicità, lo slogan della campagna lanciata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nell’ambito della prima World Antibiotic Awareness Week. Una settimana, dal 16 al 22 novembre 2015, dedicata a far conoscere il problema della resistenza agli antibiotici, dovuta all’uso eccessivo di questi farmaci, e a incoraggiare le buone pratiche tra la popolazione, gli operatori sanitari, i politici. “Si tratta – sottolinea l’Oms – di una minaccia sempre maggiore per la salute pubblica a livello globale, che richiede un intervento da parte dei governi e della società”. La disinformazione è ancora considerevole, come pure le vendite di antibiotici e farmaci antimicrobici senza prescrizione, l’utilizzo di scatole in parte già usate e magari per curare patologie di tipo virale su cui il medicinale non sortisce alcun effetto. Per far fronte alla situazione l’Oms ha elaborato un piano di azione globale per la lotta contro la resistenza antimicrobica (Global action plan on antimicrobial resistance), approvato lo scorso maggio, che prevede lo sviluppo di piani nazionali nei Paesi che ancora non ne sono dotati. Questo, in estrema sintesi, il quadro attuale e le prospettive future. Ora però uno studio, pubblicato recentemente su PlosOne, aggiunge alle attuali conoscenze un nuovo inaspettato elemento, dimostrando che la resistenza agli antibiotici non è necessariamente correlata all’abuso di questo tipo di terapia. 

Gino Fornaciari, docente di paleopatologia e storia della medicina all’università di Pisa e membro del gruppo di lavoro, entra subito nel merito della ricerca: “È una ragazza sui 20 anni proveniente da Cuzco in Perù, l’antica capitale dell’impero Inca. Più precisamente si tratta di una mummia risalente all’XI secolo (a un periodo compreso tra il 980 e il 1170 secondo la datazione al radiocarbonio Ndr) su cui è stato condotto uno studio anatomico negli anni Novanta del Novecento e oggi un’indagine molecolare in collaborazione con il laboratorio di Raoul J. Cano del California Polytechnic State University”. Avvolto interamente in due teli rossi, in posizione fetale, legato con corde ai polsi, alle caviglie e al bacino, il corpo era conservato all’interno di una cesta fatta con corde di fibre vegetali che lasciava intravedere il volto ormai scheletrizzato. Oggi il reperto è conservato al museo di storia naturale dell’università degli studi di Firenze (sezione di antropologia ed etnologia), insieme ad altre mummie portate in Italia da medici ed esploratori italiani nel corso dell’Ottocento, su tutti l’antropologo Paolo Mantegazza.  

Ebbene, grazie a moderne tecniche di paleobiologia molecolare è stato possibile ricostruire il microbioma della giovane donna. E i risultati sono stati più di uno. La scoperta senza dubbio più inattesa è stata l’identificazione nella flora batterica di geni resistenti a molti moderni antibiotici ad ampio spettro, in un’epoca in cui la terapia antibiotica era ancora ben lontana. Geni che avrebbero reso inefficace, ad esempio, la terapia con fosfomicina, cloramfenicolo, tetracicline, chinoloni e vancomicina. Quest’ultimo farmaco, ad esempio, è stato introdotto circa 50 anni fa e si riteneva che i geni resistenti all’antibiotico fossero comparsi in seguito al suo eccessivo utilizzo. Al contrario la ricerca fa saltare questa ipotesi, dato che la resistenza precede l’utilizzo terapeutico del farmaco. “Qualcuno oggi – argomenta Fornaciari – ipotizza che l’uso eccessivo di antibiotici abbia procurato delle mutazioni nei batteri rendendoli in questo modo più resistenti. In realtà avendo trovato germi resistenti alla terapia antibiotica già nell’XI secolo, è possibile sostenere che non si tratta solo di adattamenti dei germi all’antibioticoterapia ma anche di un ‘aspetto costituzionale’”.Attualmente il gruppo di ricerca sta esaminando la lunga treccia rinvenuta all’interno della cesta per cercare di capire se la donna sia stata sottoposta a qualche tipo di terapia antidolorifica, dato che nei capelli si accumulano tracce di attività farmacologica.  

Se questi sono stati i risultati che non ci si aspettava, anche altre sono le conclusioni a cui ha permesso di giungere lo studio. Ad esempio è stato rilevato che alcuni agenti patogeni hanno subito delle mutazioni genetiche nel corso dei secoli e altri meno. Nel caso specifico si è osservata un’abbondante presenza di Dna di un gene del protozoo parassita Trypanosoma cruzi (kinetoplast), l’agente eziologico della malattia di Chagas, tuttora endemica in America latina. “Già negli anni Novanta, quando studiai per la prima volta il corpo – spiega Fornaciari –, rilevai che aveva un cuore enorme, un intestino e un esofago molto dilatati. Ciò mi fece pensare che la ragazza fosse affetta dalla malattia di Chagas e un’indagine al microscopio elettronico confermò quella prima idea”. Ipotesi oggi ulteriormente corroborata. È stato inoltre possibile constatare che il protozoo ha subito un’evoluzione, una mutazione genetica del 10%, se si confronta quello antico con quello attuale. Segno, spiega Fornaciari, che ha dovuto adattarsi all’ambiente urbano attuale. Cosa diversa invece nel caso del virus del papilloma umano, di cui sono stati trovati due ceppi nel corpo della giovane donna. Questi presentano una somiglianza del 98-99% rispetto a quelli odierni. “Ciò significa – osserva il docente – che il virus era così ben adattato all’uomo nell’XI secolo che non ha subito mutazioni genetiche. Di conseguenza, si può dedurre che la trasmissione di una malattia per via sessuale non comporti mutazioni”. Ancora una volta, insomma, lo studio del passato aiuta a comprendere in modo più approfondito alcuni aspetti del presente. 

Monica Panetto

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