SOCIETÀ

Missing in action? La cultura di governo del Movimento 5 Stelle

“After The Revolution?”: è il titolo di un celebre libro del 1990 di Robert Dahl, uno dei più importanti politologi del XX secolo. Dahl, ovviamente, non si occupava del Movimento 5 Stelle ma il titolo torna alla mente leggendo – con crescente preoccupazione – ciò che sta accadendo a Roma dopo la ‘rivoluzione’ compiuta dai cittadini romani: l’elezione a sindaco di Virginia Raggi. Le difficoltà della nuova amministrazione romana non erano certo imprevedibili; ciò che però colpisce è l’intensità e la durata di una crisi politica e amministrativa con pochi precedenti nella storia recente delle città italiane. Ad esempio, ripercorrendo l’insediamento delle prime giunte leghiste a metà anni ’90, molte città di varie dimensioni (Varese, Milano, Pavia, Treviso, Vicenza) si trovarono all’epoca nelle mani di sindaci che non avevano alcuna significativa esperienza pregressa di governo. Eppure quella rivoluzione elettorale non diede vita alle difficoltà di cui si legge in queste settimane. Tutta colpa dei giornali e dei media tradizionali, come sostiene una parte dei ‘grillini’? Dopo la manifestazione di Palermo è chiaro a tutti che i problemi sono seri e non di facile soluzione.

Per quale ragione ci troviamo in questa situazione? Si potrebbe dire in modo semplicistico che la Raggi è stata meno brava della Appendino (sindaco pentastellato di Torino), e quindi che si tratti solo di una questione di leadership. La leadership indubbiamente ha un certo peso, ma non è una risposta sufficiente. Le ragioni sono da ricercarsi piuttosto nella scarsa cultura di governo del Movimento 5 Stelle, in particolare in una città così problematica (e ambita) come Roma, dove si gioca una partita dagli evidenti riflessi nazionali. La cultura di governo non si inventa, e a tal riguardo altre amministrazioni pentastellate hanno mostrato fin dall’inizio la difficoltà di passare dalla protesta alla proposta. A Parma, Federico Pizzarotti ha impiegato non poco a comprendere come prendersi cura della città con risultati – a detta di molti – non disprezzabili ma proprio in questi giorni ha lasciato il movimento. A Livorno, Filippo Nogarin dopo oltre due anni di governo, non è ancora riuscito a lasciare il segno. A Roma il Movimento 5 Stelle ha fatto il salto di qualità e tutti i nodi sono venuti al pettine. In modo per certi versi drammatico. I diversi profili professionali di Chiara Appendino e Virginia Raggi (più manageriale il primo, più legal-burocratico il secondo) e la connessa capacità individuale di governo spiegano solo in parte la diversa capacità di gestire la ‘rivoluzione’, particolarmente difficile nel caso romano.

Il problema, tuttavia, non è solo la capitale: la difficoltà di trasformare slogan di facile presa in scelte adatte al governo di una città è un problema classico per nuovi soggetti politici che attuano una ‘rivoluzione elettorale’ e devono prendere decisioni in nome di tutti i cittadini. Senza una preparazione al governo non si riesce a creare un governo. E il Movimento 5 Stelle non ha mai brillato per capacità di fare proposte politiche articolate, a differenza di altri soggetti politici esteri che di recente hanno vinto elezioni municipali in città importanti, come Podemos in Spagna.

Tutta colpa dei cittadini, le cui proposte presenti sulla piattaforma Rousseau del Movimento sono inadeguate? Tutt’altro: il maggiore coinvolgimento dei cittadini – seppur con modalità ampiamente discutibili – è un elemento di novità del Movimento da guardare con molto favore. Un elemento ‘rivoluzionario’ da valorizzare. Il problema risiede piuttosto nell’incapacità del movimento di trasformarsi in partito, cioè di adottare una cultura partitica di governo che si sostanzia nella costruzione di una classe dirigente nuova e competente e nell’aggregazione strutturata della domanda politica emergente.

Concorrendo alle elezioni e quindi accettando i fondamenti della democrazia rappresentativa, il Movimento non può continuare a far finta che una competente dirigenza ‘di partito’ non sia necessaria. Le primarie come strumento di selezione del personale politico costituiscono già una sfida per partiti più strutturati; nel caso di un movimento-partito possono essere distruttive. Inoltre, l’utilizzo della rete come principale luogo di confronto politico non aiuta ad aggregare in modo efficace e realmente partecipativo la domanda politica: servono luoghi di discussione e di confronto, dove è bene che il dissenso emerga e non venga bollato come boicottaggio e sanzionato con l’espulsione dei dissidenti come è avvenuto spesso in numerosi contesti locali.

Senza una vera cultura (partitica) di governo, il Movimento 5 Stelle riuscirà difficilmente a superare la ‘linea d’ombra’ di fronte alla quale si è finora fermato nel caso di Roma. In barba alle speranze di milioni di elettori che vedono – anche comprensibilmente – la portata innovativa dell’esperienza pentastellata.

Paolo Roberto Graziano

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