Foto di Alessandra Lazzarotto / Università di Padova
Padre contro figlio, fratello su fratello partoriti in un avello come carne da macello. Uomini con anime sottili come lamine, taglienti come il crimine. Versi mandati a memoria e cantati a squarciagola da una generazione: Fight da faida è l’inizio del rap politico in Italia, e Frankie Hi Nrg Mc (nato Francesco Di Gesù, Torino 1969) è suo padre e profeta. Considerato l’iniziatore del conscious hip hop in Italia, con lui il rap smette di essere posa per diventare linguaggio, inno, argomentazione. Troviamo l’artista a Padova, dove nell’ambito delle iniziative culturali per gli 800 anni dell’ateneo è venuto ad animare un dj set nella caserma Piave, destinata ad essere trasformata in campus universitario. Due ore di musica e di rime seguendo un filo che va da La libertà di Giorgio Gaber a Freedom dei Wham!, passando per Queen e Cream. “Mi sono ispirato non solo alla libertà in generale ma anche a tante libertà specifiche, ad esempio quella di riunirsi e fare festa – spiega nell’intervista a Il Bo Live –. In molti le davamo per scontate ma ci sono mancate a lungo in questi due anni di emergenza sanitaria”.
Cosa hai pensato quando l’università di Padova ti ha contattato?
“La prima sensazione è stata un misto di onore e orgoglio: entrare per alcune qualità che mi si attribuiscono nel mirino di un'istituzione che ha fatto dell’eccellenza un punto di merito e un blasone mi ha fatto sentire chiamato in causa, e mi ha piacevolmente costretto a mettermi in gioco in un territorio che mi appartiene fino a un certo punto. Anche per questo stasera ho cercato di mettere anche brani che esulavano dal mio repertorio abituale di dj, ma che sono parte del mio Dna musicale e culturale, chiaramente rielaborati per renderli potabili, fruibili e soprattutto ballabili. Spero che il risultato sia stato piacevole come lo è stato per me lavorare a questo progetto”.
Tu hai uno stile musicale e una scrittura pieni di riferimenti, spesso anche colti. Come ti sei avvicinato al rap?
“È la domanda che mi è stata rivolta più spesso in questi trent’anni di carriera: per questo alla fine ci ho scritto un libro che adesso è diventato anche uno spettacolo teatrale. In Faccio la mia cosa (pubblicato da Mondadori nel 2019, ndr) parlo della mia storia, la musica che ho ascoltato e il percorso che ho fatto, ma ne approfitto anche per raccontare come è nata questa cultura. In fondo siamo coetanei, il rap e io: sono del '69 mentre l'Hip hop è nato nel '73. E come due persone a un certo punto ci siamo incrociati e da quel momento ci siamo fatti compagnia”.
Il riferimento è all’11 agosto 1973: quella sera Clive Campbell, un diciottenne di origine giamaicana conosciuto come Dj Kool Herc, sta mettendo dischi in una festa privata nel South Bronx, quando a un certo punto inizia a mixare i brani come nessuno aveva fatto prima. È la tecnica che in seguito sarà conosciuta come Merry go round e che sostanzialmente anticipa l’utilizzo di suoni campionati: si isolano le parti ritmiche e strumentali mettendole in loop. Sulla pista i ragazzi impazziscono, qualcuno prende il microfono e inizia a improvvisare: in quel momento secondo alcuni nasce l’Hip hop.
Sei considerato uno dei padri del rap impegnato: è dunque possibile portare avanti idee politiche con la musica?
“Non solo è possibile: la musica in qualche misura si porta sempre appresso un messaggio, che quando viene fatto proprio da persone che poi lo propagano diventa politica. La musica è sempre un atto politico, anche quella nei supermercati. Poi ci sono epoche in cui sembra esserci grande necessità di un messaggio politico esplicito, altre in cui di contro si tende ad alleggerire e a concentrarsi sull'individuo piuttosto che sulla società nel suo complesso. Due tipologie di messaggio con valenze, valori, significati diversi, ma ugualmente capaci di penetrare nelle persone e ripropagarsi. Dunque sì, il rap è assolutamente politico”.
In Rivoluzione (2008) scrivi “Mettiamo al bando i vertici politici con tutti i loro complici”. Hai iniziato a fare musica oltre 30 anni fa, quando la cosiddetta prima repubblica crollava, mentre oggi viviamo nell’epoca dei populismi. Rimpiangi qualcosa di quell’epoca o si sta meglio ora?
“Ne parlavo giusto qualche giorno fa con una persona che stimo e con cui sono molto in sintonia, Johnson Righeira: è difficile capire cosa si rimpiange esattamente di un’epoca passata. Oggi persino certa musica terrificante riesce a strapparmi un sorriso e un po’ di nostalgia. Mr Vain dei Culture Beat ad esempio mi generava una repulsione fisica: un affronto alla bellezza, un brano dance portatore di una specifica bruttezza che me lo faceva odiare. Ebbene: un mese fa lo intercetto sulla radio e me lo ascolto tutto, collegandoci anche un bel ricordo e qualche emozione. Tornando a quando ho iniziato a fare musica, non sono sicuro se rimpiango qualcosa di specifico, o se piuttosto associo un’epoca a una certa gamma emozionale tipica di un’età che avevo. Se avessi avuto trent'anni quando De Michelis ballava in discoteca forse non mi sarebbe parso nulla di strano, ma ne avevo 15 e avevo lo sguardo di un quindicenne, con annessi giudizi e pregiudizi. Sicuramente quello di cui oggi sento la mancanza è un certo stile, che non è solo e non tanto andare in giacca e cravatta anche in spiaggia come faceva Aldo Moro. Certe slabbrature, sbrachi e volgarità sono entrati ormai nell'uso comune. Sempre di più”.
Non è che dopo i 50 anni ti sorprendi qualche volta a benpensare?
“Se è per quello già quando ho scritto la canzone mi comprendevo tra coloro che lo fanno: lo dico dalla prima strofa. Anch’io poi risento delle ondate culturali e dell’ambiente in cui sono immerso. Eppure credimi, nonostante possa sembrare serio e accigliato nelle foto e nelle interviste, nella realtà sono abbastanza comprensivo. Io non giudico: descrivo, metto tutto su un vetrino e ci punto la lente di un microscopio, raccontando quello che vedo. Quelli che dicono e non mostrano quello che fanno; quelli che dicono Not in my backyard, ma quando possono sfruttano il backyard di un altro… ripeto che non c’è giudizio da parte mia, il giudizio si fa nella testa delle persone. Io non dico che sbagliano o che sono cattivi: mi limito a descrivere e a giustapporre, faccio quello che fa Blob. Se però quella canzone è ancora attuale significa che quel vetrino non è cambiato se non in peggio, che la piastra di Petri non solo non si è ripulita, è ancora più infetta. E questo non è merito mio, è colpa di tutti noi”.