SOCIETÀ

Come sta la democrazia

Con l’annuncio della prima finanziaria l’azione del nuovo governo inizia ad entrare nel vivo: tempo anche, a due mesi dalle elezioni, per una prima analisi a freddo e per un bilancio di salute della Repubblica Italiana assieme a Marco Almagisti, politologo e docente di scienza politica all’università di Padova, oltre che coordinatore di DANE - Osservatorio Democrazia a Nordest e direttore del Centro interdipartimentale di Studi Regionali “Giorgio Lago”. All’analisi della crisi del sistema politico italiano Almagisti ha dedicato diversi studi e libri, tra cui Una democrazia possibile. Politica e territorio nell'Italia contemporanea, appena ripubblicato da Carocci in una nuova edizione aggiornata.

Certo non mancano spunti di riflessione. A un secolo esatto dalla marcia su Roma l’Italia è ad esempio guidata per la prima volta dall’esponente di quella destra sociale che, pur essendo passata quasi trent’anni fa attraverso la ‘svolta di Fiuggi’, spesso continua ad essere rimproverata di non aver tagliato sufficientemente i legami con il passato. “Forse era inevitabile che se ne parlasse, ma cercherei di limitare l’impatto della suggestione cronologica – spiega Almagisti –. Rispetto a un secolo fa siamo in un contesto molto diverso: l’Italia repubblicana ha delle robustezze istituzionali e costituzionali che nel Regno d’Italia erano imperfette o non presenti, ma soprattutto il partito Fratelli d’Italia e il suo leader Giorgia Meloni mi sembrano avviati a una ridefinizione abbastanza chiara della loro identità. L’orientamento mi pare essere quello di ispirarsi e di collegarsi a un mondo conservatore presente in Europa ma anche negli Stati Uniti: il tentativo di definire un profilo di destra collegato alle sfide dei nostri tempi, con le loro contraddizioni e i loro conflitti”.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Barbara Paknazar

Un percorso nel quale è stata finora determinante la leadership di Giorgia Meloni, prima donna presidente del consiglio nella storia italiana, ma anche il fatto che FdI sia sempre stato all’opposizione durante la scorsa legislatura. “La politica non ha beneficiato molto dalla costante e anomala abitudine italiana di ricorrere sistematicamente negli ultimi trent’anni a personale al di fuori dei partiti: tentativi di rilegittimarsi che però, come avevamo già visto con Mario Monti, alla fine non riqualificano o rigenerano il sistema”. Il successo politico è dunque incompatibile con la competenza al potere? “È un problema che non riguarda soltanto l’Italia: nell’attuale contingenza storica, in una società in cui l’impatto del sistema mediatico è molto forte, la competenza principale dei politici è proprio quella di aggregare e in qualche modo compattare il consenso. Certo in un secondo tempo bisognerebbe avere la capacità di andare a raccogliere nella società le competenze necessarie per esercitare la difficile arte di governare: unire queste due capacità è oggi la sfida principale per ogni formazione politica”.

Le ultime elezioni segnano comunque un ritorno alla politica fatta di identità forti, politiche e territoriali, dopo che nella tornata del 2018 avevamo visto la forte affermazione del MoVimento 5 Stelle, che aveva fatto della rete e della digitalizzazione un punto fondamentale della sua proposta. “Già dagli anni ’90 si parla di deterritorializzazione e di superamento del territorio, in corrispondenza della supposta fine delle ideologie e delle appartenenze – puntualizza il politologo –. Poi però vediamo vincere un partito che, come FdI, della sua identità non si è mai vergognato; del resto un grande sociologo come Alessandro Pizzorno insegnava che senza identità non si trovano nemmeno le chiavi di casa: anche per fare i propri interessi serve sapere chi siamo”.

Rispetto al passato però le divisioni, politiche e territoriali, si giocano più sull’asse centro-periferie: “I processi che noi per semplicità inseriamo nella categoria ampia e onnicomprensiva della globalizzazione impattano sul territorio in maniera diseguale. Un importante economista come Andrés Rodríguez-Pose ha notato come questo stia trasformando completamente il confronto politico rispetto al passato, con i progressisti che si affermano soprattutto nelle aree metropolitane più globalizzate, avvantaggiate dagli scambi transnazionali, mentre invece le forze politiche conservatrici si affermano nelle periferie, interne o esterne alla metropoli”. Un’analisi nella quale si inserisce anche il Nordest, oggetto di un altro libro appena pubblicato da Padova University Press e curato sempre da Marco Almagisti assieme a Paolo Graziano (Il Nordest: i fatti e le interpretazioni. La lunga transizione italiana vista dal suo epicentro). Da almeno un secolo baluardo dei partiti conservatori, negli ultimi comizi elettorali anche il Veneto ha visto ad esempio un’affermazione decisiva di FdI, che ha doppiato addirittura la Lega. Un dato non trascurabile, se si considera che dalla fine della cosiddetta Prima Repubblica in poi il Nordest si è rivelato un territorio decisamente sensibile ai cambiamenti e capace di anticipare tendenze suscettibili di imporsi anche a livello nazionale.

Le ultime elezioni segnano un ritorno alla politica fatta di identità forti, politiche e territoriali

Resta il fatto il fatto che l’infinita transizione italiana non sembra ancora arrivata a un approdo definitivo, nonostante un’apparente chiarificazione del quadro politico. Un problema che però, non si stanca di sottolineare il politologo, si inserisce in un contesto internazionale in cui già da diversi anni i sistemi democratici appaiono in serie difficoltà, persino nell’appeal che riescono a suscitare nei propri stessi cittadini. Secondo il Democracy Report 2022 dell’istituto di ricerca Varieties of Democracy (V-Dem) oggi vivono sotto un regime non democratico circa 5,4 miliardi di persone, il 70% della popolazione mondiale. Cresce inoltre la disaffezione anche all’interno di democrazie consolidate: secondo un rapporto dell’università di Cambridge nel 2019, che aggrega i dati di 3.500 ricerche statistiche condotte in decine di Paesi negli ultimi decenni, l’anno scorso l’indice di insoddisfazione globale per la democrazia ha raggiunto una media record del 57,5% (+18,8% rispetto al 2005), tanto da far parlare di vera e propria ‘recessione democratica globale’. 

Sono lontani insomma gli anni, immediatamente successivi al crollo dell’Urss, in cui si preconizzavano la ‘fine della storia’ e l’affermazione definitiva della democrazia liberale e dell’economia di mercato. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e la crisi economica, seguiti dalla grande pandemia e dal ritorno della guerra in Europa, hanno messo e stanno mettendo a dura prova le società aperte. Eppure, nota Almagisti, proprio in questi giorni in Iran e adesso anche in Cina la gente scende in piazza per chiedere più libertà e una partecipazione effettiva ai processi decisionali, spesso guardando proprio a occidente in cerca di modelli da imitare. Segno di una resilienza e di un’attrattiva che spesso siamo i primi a sottovalutare.

La crisi (e le sfide) della democrazia

In collaborazione con il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali - SPGI

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