SOCIETÀ

Mani Pulite e la transizione infinita

È il 17 febbraio 1992, un lunedì sera, quando le forze dell’ordine irrompono nel Pio Albergo Trivulzio, una delle istituzioni benefiche milanesi più antiche e prestigiose. Il presidente Mario Chiesa, già capogruppo nel consiglio provinciale e poi assessore comunale in forza al Psi, viene sorpreso mentre sta ricevendo una tangente da sette milioni di lire per un appalto. “Mister 10%” prova a far sparire in un gabinetto i pacchi di banconote, ma il goffo escamotage non servirà ad evitargli l’arresto da parte di un giovane pm: Antonio Di Pietro.

È un episodio apparentemente minore a far divenire di dominio pubblico l’inchiesta Mani Pulite: un evento decisivo da ogni punto di vista per la storia italiana recente. “Non amo la terminologia in voga sul passaggio dalla prima alla seconda repubblica, la Repubblica italiana è una sola, ma non c'è dubbio che Tangentopoli abbia cambiato in maniera significativa alcuni tratti della nostra democrazia”, spiega a Il Bo Live Marco Almagisti, docente di scienza politica presso l'università di Padova e curatore del libro La transizione politica italiana. Da Tangentopoli ad oggi, edito nel 2014 da Carocci. “Nel biennio 1992-94 cambiò la legge elettorale, ma soprattutto cambiò in maniera molto incisiva il sistema partitico – continua lo studioso –: nessuna delle famiglie politiche fondatrici della Repubblica rimase in campo con i suoi simboli, il suo nome e il suo personale politico. Certo Tangentopoli non è la causa esclusiva di questi cambiamenti, però ne fu sicuramente l'innesco”.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio; montaggio di Elisa Speronello

Così in pochi anni scomparirono dalla geografia politica italiana le ideologie e i movimenti del Novecento, subito indicati come unici responsabili della crisi che travolgeva le istituzioni: Dc e Psi sparirono nel 1994 mentre il Pci aveva già cambiato nome nel 1991, dopo un percorso iniziato con la caduta del muro di Berlino. Una situazione che oggi provoca tra l’altro non pochi problemi alla politica italiana, costretta a livello europeo a posizionarsi in un quadro ancora in gran parte dominato da socialisti, popolari e liberali. Per Marco Almagisti le ragioni di quel sommovimento sono molteplici: “soprattutto negli anni ’90 si è parlato a lungo di un'obsolescenza, una necessità di superamento dei partiti: nessuno però ha ancora trovato dei sostituti funzionali. Tutti i regimi democratici contemporanei si basano su un sistema di partiti, piaccia o meno”.

Un cambio di cultura politica ne avrebbe richiesto uno delle regole del gioco, così l’ansia riformatrice si indirizzò innanzitutto verso una nuova legge elettorale maggioritaria, varata nel 1993 dopo un referendum  che il segretario socialista Craxi aveva invitato a boicottare. Le speranze di ulteriori riforme, che potessero dare maggiore stabilità al sistema e portare a un’azione politica più efficace e trasparente, sarebbero però state frustrate. Nel 2001 fu approvato il nuovo Titolo V della Costituzione, che diede più potere alle regioni, ma i referendum del 2006 e del 2016 fecero naufragare i progetti di riforma presentati rispettivamente dal centrodestra e dal centrosinistra. Nel 2020 è stata varata la diminuzione dei parlamentari, ma dopo 30 anni il bottino delle riforme appare comunque alquanto magro.

Nessuna delle famiglie politiche fondatrici della Repubblica rimase in campo con i suoi simboli, il suo nome e il suo personale politico

Intanto, mentre il presidente Mattarella e il premier Draghi vengono riconfermati ai loro posti e la legislatura si avvia a concludere il suo tormentato cammino, in parlamento si appresta a riconsiderare addirittura un ritorno alla legge elettorale proporzionale. “In realtà è molto difficile che una democrazia cambi in maniera radicale il proprio tipo – è l’analisi di Almagisti –. Dagli anni Quaranta fino al ‘93 abbiamo vissuto in quella che in scienza politica è definita democrazia consensuale, ossia un basata su un sistema elettorale proporzionale e su una forte collaborazione tra maggioranza e opposizione”. L'unico precedente storico vicino a noi di un passaggio radicale da un tipo di democrazia ad un altro, secondo lo studioso, è rappresentato da quello avvenuto alla fine degli anni Cinquanta dalla Quarta alla Quinta repubblica in Francia, caratterizzato dall’adozione del semipresidenzialismo: “Si trattava però di una condizione storica del tutto particolare, in un Paese scosso dalla crisi algerina, con la presenza di una leadership straordinaria come quella di Charles De Gaulle, in grado di fare appello direttamente all'opinione pubblica e di condizionare dei partiti già in qualche modo indeboliti. Così non è stato in Italia: da noi la transizione è rimasta in mezzo al guado ed è anche diventata incoerente e faticosa. Del resto l'approdo a una democrazia maggioritaria, probabilmente lontana dai nostri canoni culturali, è stato oggetto di ripensamenti e controspinte fin quasi dall’inizio”.

Così i problemi posti 30 anni fa dall’inchiesta Mani Pulite sono ancora quasi tutti sul banco: se la corruzione è lontana dall’essere debellata e assume forme sempre più nuove e fantasiose, dall’altra parte non è aumentata neppure la stabilità del quadro politico, eccettuato forse il quinquennio dal 2001 al 2006. Nel frattempo si sono aggiunte criticità nuove, a cominciare da un conflitto non dichiarato tra politica e magistratura che non ha ancora trovato soluzione. L’ascesa di nuovi soggetti politici e leader non ha cambiato sostanzialmente un sistema politico e istituzionale che appare ancora bloccato e incapace di affrontare le sfide poste dalla globalizzazione e dal suo riflusso. Oggi insomma Tangentopoli è l’emblema di un passato che nessuno vuole far tornare, ma che al contempo continua a esercitare la sua influenza. L’inizio di una transizione di cui, in maniera alquanto contraddittoria, dopo tanto tempo si stenta ancora a vedere la fine e, soprattutto, l’esito.

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