Bettino Craxi nell'aula del tribunale di Milano per il processo di Mani Pulite nel 1993
Mani Pulite fu un terremoto politico ma anche e soprattutto un’inchiesta giudiziaria, la cui eredità segna ancora profondamente il nostro sistema: ad esempio nei rapporti tra politica e magistratura, tra difesa e pubblica accusa, ma anche nei poteri del pm e nell’uso della carcerazione preventiva. Così, dopo l’intervista al giornalista Bruno Perini, nella seconda puntata della nostra riflessione su quegli anni ci rivolgiamo a Roberto Kostoris, ordinario di Diritto processuale penale e direttore della Scuola di Dottorato in Giurisprudenza presso l’università di Padova.
Professore, che ricordi ha dell'inchiesta Mani Pulite?
“Allora ero un giovane professore a Trieste e ricordo bene quel momento particolarissimo, che segnò un forte cambiamento per la giustizia penale ma anche un nuovo interesse da parte dei giovani per gli studi giuridici: ricordo il boom di iscrizioni a giurisprudenza – mai più raggiunto dopo quell’epoca – da parte di tanti ragazzi che volevano diventare magistrati ed emulare le gesta di Di Pietro. C’era l’idea che fosse finalmente in atto una moralizzazione della vita del Paese, che venisse scoperchiato un problema rimasto nascosto troppo a lungo e che i magistrati fossero gli unici in grado di attuare questa palingenesi”.
Che giudizio dà di quell’inchiesta?
“Vedendo cosa succede oggi, c’è seriamente da domandarsi a cosa sia valsa. Da un punto di vista tecnico, occorre dire che proprio attraverso quelle inchieste il baricentro del processo si era spostato visibilmente nelle prime fasi, addirittura nei primi atti di indagine, con una palese distorsione rispetto alle linee del nuovo codice di procedura penale che era entrato in vigore appena tre anni prima. E porre l’accento sui primi atti d’indagine, anziché sul dibattimento, portò a un gigantismo della figura del pubblico ministero, cioè dell’accusatore, che – non dimentichiamolo – è una parte processuale e non va confuso con il giudice, che è il soggetto chiamato a decidere. Spesso invece nella cronaca giudiziaria si assisteva a un’inversione dei ruoli, riferendosi, ad esempio, al ‘giudice Di Pietro’ anziché al ‘sostituto procuratore Di Pietro’”.
“ Porre l’accento sui primi atti d’indagine, anziché sul dibattimento, portò a un gigantismo della figura del pm
Quasi come se il pm fosse un soggetto super partes.
“Un rivolgimento così profondo della società non poteva venire da un accusatore: doveva essere l’opera di un uomo imparziale, anzi, di un ‘superuomo’. Un’altra, ancora più forte e dannosa, distorsione mediatica veniva – ma tuttora continua a venire – dal fatto che i tempi dell’informazione non sono i tempi del processo. Le notizie sono deperibili, vanno date subito; il processo invece richiede – fisiologicamente – tempi assai più lunghi per giungere a una conclusione. Ecco allora la distorsione: siccome non c’è tempo di aspettare, si finisce per identificare il risultato di un processo con i suoi primi atti. Si identifica il semplice indagato con il colpevole, tout court. Un pregiudizio pesantissimo: ci fu un periodo in cui bastava la semplice notizia di reato per parlare già di colpevolezza”.
I famosi ‘avvisi di garanzia’.
“Lei mi cita un esempio di cambiamento del linguaggio, messo in atto dai giornalisti: la legge infatti parlava e parla di ‘informazione di garanzia’, che è l’atto con cui si informa (‘riservatamente’, si badi!) l’indagato che si stanno compiendo indagini nei suoi confronti. Lo scopo dell’istituto è di garanzia, come dice il nome: si vuole mettere in condizione l’indagato di provvedere alla sua difesa. Invece quella comunicazione, compiacentemente fatta giungere ai media, diveniva (e diviene) di dominio pubblico e si trasforma nel suo contrario: uno stigma di colpevolezza; per questo viene definita ‘avviso’, dandole un senso molto più aggressivo. È rimarchevole che un’intera classe politica sia stata eliminata non con processi conclusi con una sentenza di condanna, ma attraverso semplici indagini, accompagnate spesso da arresti.
Proprio riguardo l'uso della carcerazione preventiva ci furono anche diverse critiche al pool milanese.
Chiediamoci innanzitutto: a cosa serve la custodia cautelare? Il suo scopo fisiologico non è quello di anticipare la pena. Dovrebbe servire a evitare l’inquinamento delle prove – che l’indagato lasciato libero potrebbe far sparire, rendendo impossibili ulteriori indagini o il processo – oppure a prevenire la fuga o la commissione di altri reati. Invece è stata usata in modo improprio sia mediaticamente, abbinandola a una presunzione di colpevolezza, che come sistema di pressione indebita: la minaccia del carcere per ottenere confessioni o chiamate in correità. A questo punto però la custodia cautelare diventa essa stessa strumento di indagine, anziché di cautela. Tanto è da rifiutare questa prospettiva che successivamente il legislatore ha stabilito che il silenzio dell’indagato non può essere di per sé considerato come sintomatico di una volontà di inquinare le prove, e non può quindi giustificare la custodia cautelare.
“ È rimarchevole che un’intera classe politica sia stata eliminata non con sentenze, ma attraverso semplici indagini
I magistrati di Milano però motivavano i loro provvedimenti proprio con il pericolo di inquinamento, in un contesto dove la corruzione era sistemica.
Certo. Bisogna però ricordare che la custodia in carcere dovrebbe essere una extrema ratio da utilizzare se non ci sono altri strumenti, non la prima opzione. C’è poi un altro aspetto tecnico da tenere presente: dal 1992 al 2001 abbiamo sostanzialmente vissuto un periodo di controriforma del processo penale. Il codice di procedura penale, approvato nel 1988 ed entrato in vigore l’anno dopo, aveva un’impostazione accusatoria, nel pieno rispetto dei diritti della difesa. Tre anni dopo, nel 1992, venne invece varata una sua riforma in senso nettamente inquisitorio. Il pubblico ministero ridiventò cioè quello che era stato con il codice Rocco: un organo in grado di formare le prove che poi venivano utilizzate dal giudice nel dibattimento.
Ci spiega un po’ meglio questo passaggio?
Originariamente il codice di procedura penale del 1988 si fondava sul principio che gli atti investigativi non formano prove e che il giudice, salvo alcune eccezioni, non poteva fondare su di essi una sentenza di condanna. Con la controriforma del 1992, approvata in condizioni drammatiche dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, fu stabilito il contrario: quegli stessi atti potevano ora diventare prova tramite la procedura della contestazione in dibattimento. Questo diede al pm un enorme potere, che contribuì agli sviluppi dell’inchiesta Mani Pulite. In seguito nel 2001 la cosiddetta riforma del ‘giusto processo’ ha riportato la situazione agli assetti originari.
Oggi, a 27 anni di distanza, cosa possiamo dire su quella stagione?
Che la repressione penale non basta per eliminare certi fenomeni che sono, ahimè, sociali. Occorre soprattutto la prevenzione: in primo luogo perché la repressione interviene solo dopo che il reato è stato commesso, poi perché riguarda necessariamente solo casi specifici.
“ la repressione penale non basta per eliminare fenomeni sociali
Quale può essere il contributo di strutture come l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac)?
Può sicuramente essere uno strumento importante anche se in certi casi, come per tutte le procedure standardizzate, richiedere requisiti astratti rischia quasi di diventare d’intralcio a un’azione più spedita da parte della pubblica amministrazione. Più prescrizioni significa più controlli: di per sé non sarebbe un male, ma questo dovrebbe spingere a calibrarli in modo tale che non diventino esclusivamente formali. Azioni come quella dell’Anac possono insomma contribuire, ma quello che serve è soprattutto un discorso più ampio di costume. Ma se la classe politica non dà esempi virtuosi, come si fa a pretendere che siano proprio i cittadini a comportarsi meglio?
Oggi cosa si può fare contro la corruzione?
Provvedimenti specifici possono certamente aiutare, ma alla base sono gli italiani a dover cambiare mentalità. Un discorso quasi di riassesto gestaltico del nostro costume: la legalità non deve più essere considerata un ostacolo all’efficienza ma un valore in sé. Bisogna finirla con il pretendere privilegi individuali per tornare a guardare al bene comune: che poi, se correttamente perseguito, si converte virtuosamente in benefici per ognuno.