CULTURA

Quella marcia non fu un bluff

Rivoluzione o colpo di Stato? Azione violenta od ‘opera buffa’, per dirla con Gaetano Salvemini? A distanza di 100 anni esatti non è facile etichettare la marcia su Roma: “È stata tante cose contemporaneamente, darne una definizione univoca rischia di nascondere altre dimensioni egualmente importanti” spiega Giulia Albanese, docente di storia contemporanea presso l’Università di Padova e studiosa di fascismo, al quale ha dedicato numerosi libri e studi. “Descriverla esclusivamente come bluff o performance è certamente riduttivo – continua Albanese –; trascura elementi essenziali come ad esempio la violenza, che fu presente non solo nelle fasi preparatorie, con l’assalto delle squadre d’azione alle sedi dei sindacati e delle amministrazioni cittadine di sinistra, ma anche nelle successive, quando forse non ce n’era nemmeno più bisogno. C’è poi l’aspetto della rottura istituzionale della tradizione parlamentare, che per la verità aveva già avuto un precedente nell’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale. Vittorio Emanuele III non solo sceglie di non firmare lo stato d’assedio, non solo dà l’incarico di formare il governo al leader di un’esigua minoranza, ma il 31 ottobre permette alle camicie nere di sfilargli di fronte, legittimandole e in qualche modo parificandole all’esercito. Cosa che in seguito verrà effettivamente fatta con l’istituzione della milizia”.

A suo avviso quindi la portata storica di questo evento non andrebbe svalutata, come ha lamentato una volta Mario Isnenghi?

“Dal punto di vista storiografico la sua importanza è ormai definitivamente acquisita. Anche Emilio Gentile in E fu subito regime (Laterza 2014) riconosce che con la marcia su Roma si consuma una rottura nel sistema liberale ed emerge fin dal principio il progetto politico fascista. Nel dibattito pubblico però spesso si continua a puntare soprattutto su aspetti performativi quando non addirittura grotteschi”.

È dunque il 28 ottobre a segnare l’inizio della dittatura?

“Sicuramente inaugura una nuova fase dello Stato italiano: è già un regime, anche se non è ancora il tipo di regime che si consoliderà negli anni successivi. A partire da qui, in particolare con il ‘discorso del bivacco’ del successivo 16 novembre, i deputati sono minacciati fisicamente nelle stesse aule parlamentari; in seguito viene cambiata il sistema elettorale e con la legge sulla censura la stampa passa sotto il controllo del governo. Nonostante la classe dirigente liberale non se ne accorga siamo già in uno stato d’eccezione, che verrà ulteriormente definito e istituzionalizzato nel 1925 con le leggi cosiddette fascistissime”.


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Lei ha dedicato alla marcia su Roma il suo primo libro, del quale è stata appena pubblicata la riedizione aggiornata. Come è cambiato o come sta cambiando negli ultimi anni il nostro modo di guardare al fascismo?

“Ho due risposte a questa domanda. Da un punto di vista personale quando nel 2006 ho pubblicato questo lavoro, cominciato nel 2000 con la mia tesi di dottorato, il fascismo era soprattutto un tema storico, senza grosse implicazioni nell’attualità, anche se era un modo per ragionare sulla democrazia e su come essa si trasforma. Adesso la prospettiva è cambiata, e non perché è cambiato lo sguardo dell'osservatrice ma perché la parola fascismo è molto presente nel dibattito pubblico. Per quanto invece riguarda la storiografia sono stati anni fertili: oggi ad esempio sappiamo molto di più su temi importanti come la violenza politica, le colonie, la burocrazia e l’amministrazione fasciste”.

Il centenario ricorre nel momento in cui una destra nazionale e sociale, che in passato non ha negato il legame storico con il fascismo, è per la prima volta alla guida dell’Italia repubblicana. Allo stesso tempo la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel primo discorso davanti alla Camera dei deputati ha detto di non aver ‘mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso’. Siamo di fronte a una mera coincidenza o a un ricorso della storia?

“È chiaramente una coincidenza: le distanze tra ieri e oggi sono profondissime, per situare storicamente l’attualità non occorre partire dal 1922. Dopodiché penso anche che la questione non nasca solo dalle grida al lupo della sinistra, ma anche dal fatto che la destra continua a rifarsi a simboli e a parole d’ordine che richiamano il fascismo storico. Lo vediamo ad esempio nel dibattito intorno alla richiesta di rimuovere la fiamma dal simbolo di FdI, o anche dal fatto che qualche parlamentare ami tenere ostentatamente in casa memorabilia fascisti. Non siamo nel '22 o nel 1940 ma questo bisogno di richiamarsi al fascismo è qualcosa su cui riflettere: è dunque apprezzabile che oggi se ne prendano le distanze, ma bisognerà vedere come queste saranno vissute agite. Anche perché arrivano tardivamente”.

Le distanze tra ieri e oggi sono profonde, ma la destra continua a rifarsi a simboli e a parole d’ordine che richiamano il fascismo storico

In un'intervista a Il Bo Live lo storico Marco Mondini ha detto che i paragoni con 100 anni fa sono azzardati anche perché manca nella società di oggi, rispetto a quella del 1922, un’abitudine radicata alla violenza, militare ma anche politica. Lei che ne pensa?

“Sono abbastanza d’accordo, penso però che la rilevanza della violenza verbale nel discorso politico e pubblico odierno non sia un tema del tutto secondario. Nel 1920-22 la violenza fascista puntava a escludere dalla società gli avversari umiliandoli, silenziandoli, uccidendoli nel caso che non si piegassero; oggi i social permettono di zittire gli avversari in modi meno violenti ma che hanno comunque una certa efficacia. Le due violenze ovviamente non sono equivalenti e i contesti sono profondamente diversi, però segnalerei che non è sulla quantità di violenza che si gioca la partita della democrazia – non credo che la società italiana sarebbe disponibile ad accettare un ampliamento della violenza sulla scena pubblica –, ma sulla possibilità di esprimere legittimamente e democraticamente il dissenso e sulla tutela delle minoranze”.


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